Una dittatura non è fatta solo di violenza, di repressione e di ciò che emerge alla luce della Storia. Ha un'anima rimossa in cui convergono dinamiche di potere, ombre, soldi e aiuti dalle banche. Un torbido risvolto che si estende, soprattutto nel caso delle dittature sudamericane, alla sparizione e alle sorti dei desaparecidos. Azor, esordio alla regia di Andreas Fontana disponibile su MUBI, ruota proprio attorno all'assenza e alle sue implicazioni, in un film ambientato ai tempi della dittatura militare argentina, osservata dall'originale punto di vista dei rapporti tra il sistema bancario svizzero e il paese latino americano.
È un film che nasce dall'esperienza personale di Andreas Fontana, nato in Svizzera ma cresciuto cinematograficamente a Buenos Aires. L'idea per il soggetto, sviluppato poi con l'aiuto di Mariano Llinás (regista del fluviale La Flor), gli è venuta dopo aver ritrovato un diario di viaggio di suo nonno, un banchiere privato che andò in visita da alcuni amici in Argentina, proprio nel periodo della dittatura. Dittatura che, tuttavia, in Azor è una delle protagoniste assenti, tenuta fuori campo eppure così viva nelle dinamiche e nei personaggi mostrati, componendo una costante tensione nelle immagini e nella narrazione.
Nell'Argentina del 1980, nel pieno della dittatura militare guidata dal generale Jorge Rafael Videla, un banchiere privato svizzero, Yvan De Wiel, arriva da Ginevra in compagnia della moglie, per incontrare i clienti in seguito alla scomparsa del socio Keys. Yvan, turbato dalla misteriosa assenza del collega, si divide tra ricevimenti, incontri in hotel e club escusivi, feste a bordo piscina, tentando di allacciare rapporti con uomini d'affari e di far fronte alle voci tutt'altro che lusinghiere che circolano su Keys.
Azor è la parola usata in gergo dalla cerchia dei banchieri che significa "attento a quello che dici". Ed è esattamente il comportamento tenuto da Yvan, che si muove tra i vari incontri quasi disorientato e con il passo incerto, soppesando le parole, come se fosse schiacciato da quel mondo. È un personaggio-perno attorno al quale ruotano gli ambienti e i personaggi secondari, che prendono il sopravvento e rubano la scena al suo cauto incedere. Tenta di imparare, di adeguarsi a quella dimensione fredda e dominata da opportunismo e connivenza che finisce con l'assimilare, in una discesa verso gli inferi di conradiana memoria.
Ma Azor è soprattutto un film sulle assenze, come detto in apertura. Ombre e fantasmi che pervadono l'immagine colmandola di tensione. Non solo la dittatura, Keys è il vero e proprio protagonista assente, alla stregua di quanto avviene in Rebecca di Hitchcock o nel recente Il potere del cane di Jane Campion. Non c'è sequenza in cui non si parli di lui, non c'è personaggio che non lo nomini e la sua ombra aleggia costantemente, portando Yvan a una sorta di confronto-scontro che solo nel finale (con l'ultima emblematica inquadratura) riesce a superare.
Questa messa in scena dell'assenza è accentuata dalla regia di Andreas Fontana, dal suo utilizzo dello spazio. I molti primi piani e piani medi, soprattutto ad apertura di sequenza, che avviene spesso in media res, contribuiscono a un senso compressivo che aumenta una tensione che in Azor è costante e ambigua. Una tensione che lo avvicina alle forme di un thriller in cui riecheggia le Carrè, plasmato dai non detti, oltre che dalle parole.