BAC Nord (2021) è la seconda incursione nel polar da parte di Cédric Jimenez, un regista francese che si era già fatto conoscere a livello internazionale nel 2014 con il gangster-movie French Connection (e più avanti anche con L’uomo dal cuore di ferro, che esula però dal nostro discorso). La French – che nel titolo italiano omaggia il capolavoro di William Friedkin – narrava la storia vera della lotta fra il giudice Pierre Michel e il gangster Gaëtan Zampa nella Marsiglia degli anni Settanta, che si concluse con l’omicidio del magistrato e lo smantellamento del clan. Jimenez dev’essere particolarmente affezionato ai racconti di cronaca, visto che il suo nuovo film si ispira a un altro fatto realmente accaduto, in un granitico e tesissimo polar 2.0 (come si usa dire oggi) che scava nel torbido dei legami fra polizia e criminalità.

Il film è co-sceneggiato dal regista e da Audrey Diwan, sua moglie e collaboratrice storica, balzata di recente all’apice della celebrità per la regia del dramma L’évenement, fresco vincitore del Leone d’Oro a Venezia78. I fatti narrati risalgono al 2012, quando 18 agenti della BAC di Marsiglia (brigades anti-criminalité, cioè la squadra anticrimine) furono arrestati per traffico di droga e racket: BAC Nord, presentato in anteprima e fuori concorso a Cannes nel luglio scorso, si ispira a quella storia, pur costruendo personaggi e vicende di fiction.

Il film è ambientato a Marsiglia, in un clima pesante di criminalità e disagio sociale all’interno dei quartieri popolari, mentre la BAC si muove nella delinquenza comune, tra furti e spaccio. Protagonisti sono tre agenti della brigata, Greg (Gilles Lellouche), Yass (Karim Leclou) e Antoine (François Civil), impegnati ogni giorno in strada nella lotta al crimine, e che si trovano fra l’incudine e il martello: da un lato gli spacciatori, dall’altro i loro superiori, che vogliono risultati concreti ma rimanendo nei confini della legge.

Quando la situazione si fa insostenibile, poiché la polizia sta perdendo il controllo di un intero quartiere in mano a una grossa rete di trafficanti di droga, il loro capo approva un’operazione ai limiti della legalità: i tre devono recuperare un quantitativo di droga da fornire come merce di scambio a una confidente, in cambio di informazioni sicure sulla rete criminale. Il piano funziona, e in seguito a una violenta irruzione la gang viene sgominata, ma poco tempo dopo i tre agenti sono accusati a loro volta di spaccio e racket. La storia prosegue non senza sorprese. 

BAC Nord è un polar sui generis, è un film di confine, che si colloca alla confluenza fra varie correnti del cinema “nero” contemporaneo: da un lato, il polar tout-court, cioè quel genere squisitamente francese che affonda le proprie radici fin dagli anni Sessanta e mescola il poliziesco con il noir, dove gangster e poliziotti conducono una lotta spietata; dall’altro, un tipo di cinema particolare (la distinzione è sottile ma c’è), sempre più praticato negli ultimi anni, e che racconta la pesante situazione di disagio, criminalità e immigrazione all’interno delle grandi città, in particolare nei quartieri popolari in preda al degrado e alla delinquenza, a cui si contrappongono le varie brigate della polizia. Un cinema molto figlio dei nostri tempi, che trova una pellicola seminale ne L’odio di Kassovitz, e proseguito più di recente sia in Francia (ricordiamo I miserabili di Ladj Ly) sia in altri Paesi europei, dalla Danimarca (Enforcement, o Shorta nel titolo originale) alla Spagna (la serie-tv Antidisturbios) fino all’Italia (ACAB).

Se parliamo di corruzione nella polizia, viene in mente per certi versi un gigante del noir francese contemporaneo, Olivier Marchal, ex poliziotto poi diventato regista: uno che in divisa doveva averne viste di cotte e di crude, e che mette in scena un sistema corrotto fino all’osso, dal seminale 36 Quai des Orfèvres al più recente e spettacolare Bronx (si trova anch’esso su Netflix: guardatelo). Il film di Jimenez è però diverso tanto da French Connection, di stampo più classico e padrinesco, quanto dalle opere di Marchal, rispetto al quale è meno enfatizzante, e cerca una difficile (ma riuscita) quadratura del cerchio fra realismo e spettacolarità, fra azione e introspezione.

BAC Nord ha fatto molto discutere poiché accusato di essere un film impostato ideologicamente a destra (a differenza, per esempio, de I miserabili), con una distinzione manichea fra i delinquenti, quasi tutti immigrati, e i poliziotti, agenti onesti che finiscono vittime del sistema. Ma sappiamo che le reinterpretazioni ideologiche lasciano quasi sempre il tempo che trovano, e BAC Nord non fa eccezione, perché i poliziotti non sono rappresentati né come santi né come superuomini, bensì come uomini corruttibili – pensiamo ad Antoine, che in casa tiene uno scomparto segreto con denaro sporco, droga e bilancia per lo spaccio, ma notiamo anche i riferimenti alle intercettazioni – e resi tali da un lavoro infame.

Certo, la distinzione coi criminali è piuttosto marcata, ma Jimenez mette in scena la realtà nuda e cruda: i poliziotti sono costretti a sporcarsi le mani come insegna l’illuminante discorso finale di Nick Nolte in Terzo grado di Sidney Lumet, sono obbligati a venire a patti coi piccoli delinquenti e con gli informatori per sgominare le gang più grandi, e a compiere loro stessi azioni criminali (o al limite della legalità) come il sequestro della droga da rivendere all’informatrice, per poi finire vittime di un gioco politico più grande di loro.

La regia segue i protagonisti lungo le strade malfamate di Marsiglia (città natale del regista, che vi aveva ambientato anche il suo precedente polar), adottando uno stile secco, asciutto, brutale, fatto in buona parte di camera a mano e fotografia il più possibile neutra (se vogliamo, un po’ nel solco tracciato dal primo Refn con Pusher), a differenza della fotografia di La French che era di stampo più vintage, come tutto il film. Interpretati da attori non molto conosciuti a livello internazionale ma parecchio attivi in Francia e coi volti giusti – Gilles Lellouche, qua nel ruolo di Greg, era il gangster in French Connection – i tre poliziotti, sempre in borghese, ruvidi e abbruttiti da un lavoro sporco, lottano contro scippatori, spacciatori e delinquenti di vario tipo, francesi o immigrati – tutti incappucciati o dai volti patibolari – fra violenti scontri corpo a corpo e alcuni mexican standoff a pistole spianate.

Jimenez costruisce BAC Nord con una narrazione e un montaggio sempre più serrati, propedeutici a quella che è la lunga sequenza-madre del film, cioè l’assedio e il blitz nel palazzo che è sede della gang di narcotrafficanti – un ambiente non molto lontano dalle Vele di Scampia di Gomorra – quando i tre agenti e una squadra di poliziotti in assetto antisommossa fanno irruzione a suon di lacrimogeni, inseguimenti e sparatorie con pistole e mitra. L’azione è una parte importante del film – pensiamo anche alla rassegna di esecuzioni all’interno del milieu criminale – e anche se non si spara tantissimo, lo spettacolo è assicurato, all’interno di un film brutale e violento, fra scontri a mani nude, assedi e inseguimenti, con la colonna sonora che vibra insieme alle immagini.

Mentre il soggetto alterna le azioni dei poliziotti con squarci sulla loro vita privata (la star Adèle Exarchopoulos, qua un po’ sotto-utilizzata, è la moglie di Yass), la struttura del film si può dividere sommariamente in tre fasi: presentazione dei tre protagonisti e delle loro azioni quotidiane nelle strade di Marsiglia, preparazione ed esecuzione del maxi-blitz, infine l’incarcerazione, prima del lieto fine grazie alla testimonianza della confidente, la quale è una figura-chiave in tutta la storia; tre fasi che confluiscono naturalmente l’una nell’altra, grazie a una regia matura e ispirata.