Cinefilia Ritrovata ha chiesto ai suoi collaboratori, per lo più giovani, di dire la loro sul capolavoro di Kubrick, purché rivisto oggi, quarant’anni dopo, in sala, nel restauro digitale. Bisognava insomma “re-incontrare” il film, nella sua versione originale con sottotitoli italiani, anche per riassaporarne l’immersione totale. Ecco (in due tranche) il ventaglio di recensioni e analisi che ne è scaturito. Parte II, segue:

Barry si arruola e combatte, si innamora, brama, imbroglia e fallisce. Nel 1975, all’epoca della sua uscita in sala, il film non ebbe grande successo, ma ad oggi è considerato un classico imprescindibile. Kubrick racconta il giovane Redmond Barry (interpretato da un glaciale Ryan O’Neal) come si fa con i grandi eroi della letteratura: la voce fuoricampo di un narratore pungente ed acuto ci trascina nella vita del protagonista, avventura dopo avventura, nella buona e nella cattiva sorte, attraverso una narrazione temporalmente lineare. Non a caso il film è tratto dal celebre romanzo ottocentesco Le memorie di Barry Lyndon di William Makepeace Thackeray, che Kubrick aveva riletto più volte. Il regista non era nuovo all’adattamento letterario (pensiamo a Il dottor Stranamore, Arancia Meccanica, Lolita) e, desideroso di girare un film storico, il romanzo gli sembrò l’occasione perfetta: la storia di un eroe e la sua parabola discendente, dalla nascita al più alto splendore, sino al miserabile decadimento.

Girato tra l’Irlanda e l’Inghilterra, Kubrick utilizza scenografie meravigliose e costumi impeccabili, il tutto accompagnato dalla musica incessante ri-orchestrata da Leonard Rosenman, che rilegge celebri brani di Bach, Händel e Schubert: il suo trio per piano in mi bemolle si trasforma in un leit motiv solenne e crudele, quasi ossessionante per lo spettatore. Il vezzo stilistico degli zoom al contrario, utilizzati smodatamente in tutta l’opera, ci ricorda quanto il maestro fosse bravo nel muovere la cinepresa: molte immagini prendono vita da un particolare e, attraverso carrellate all’indietro, si allargano su quadri d’insieme di indiscutibile bellezza. E così, attraverso una dovizia maniacale ed una cura ammirabili, Kubrick ci restituisce la disfatta di un giovane prode combattente e assetato di ricchezza. E’ nota la vicenda riguardante la tecnica di illuminazione utilizzata per il film: solo luce naturale, candele e lumi ad olio, per evocare l’atmosfera pastosa e soffusa delle tele di William Hogarth, Antoine Watteau, George Stubbs, Joshua Reynolds, John Constable e Füssli, a cui il regista si era ispirato. Nelle sequenze in esterni e interni, orchestrate mirabilmente dal direttore della fotografia John Alcott, si respira l’evanescenza tipiche dei quadri dell’epoca e, non a caso, il film vinse quattro Oscar meritatissimi: costumi, fotografie, scenografie e musica.

L’incontro tra Lady Lyndon e Barry è una delle sequenze di sguardi più tese ed evocative della storia del cinema: Lady Lyndon (Marisa Berenson), donna sposata, incrocia lo sguardo di Barry al tavolo. I due si guardano insistentemente. Lady Lyndon esce in terrazzo e la mdp segue il suo corpo. Barry uscirà dal salone per raggiungerla, lo sentiamo, ma Kubrick non lo riprende, lo lascia fuori dal quadro e continua a mostrarci lei, in trepidante attesa, inquieta ed emozionata. Nell’inquadratura entra finalmente il giovane, si ferma davanti a lei. Le sfiora la mano, sono immobili e si scambiano un lentissimo bacio, in un’inquadratura che cita l’omonimo dipinto di Hayez. Non importa se i due smetteranno di amarsi poco dopo, se il figlio di Lady Lyndon detesterà Barry e se quest’ultimo perderà il suo primogenito prediletto: Redmond Barry incarna l’eroe classico per eccellenza, votato al desiderio e destinato al fallimento, animato da sentimenti vitali e umani a cui ci è difficile restare indifferenti. Kubrick lo rivela poco a poco, mettendo in campo, con l’abilità di grande artigiano oculato e attento qual è, tutto ciò che di meglio il cinema ci può dare: la sapiente e meticolosa ricostruzione di scenografie ed esterni, la magnificenza dei costumi, la creazione di una colonna sonora che diventa vero e proprio personaggio senza volto. Un’ode al cinema e alle sue potenzialità, un viaggio nel miracolo della finzione, sortilegio dove nulla è reale eppure tutto ci sembra così plausibile.

(Caterina Sokota)

 

 

Che cosa significa vedere – o rivedere – oggi Barry Lyndon al cinema? Si tratta di un’immersione totale e profondissima in una maniera di fare cinema praticamente scomparsa al giorno d’oggi. Kubrick per realizzare questo film impiegò circa 300 giorni di riprese, frutto di una meticolosità propria di pochissimi altri registi. Il suo progetto non era una semplice trasposizione del romanzo Le memorie di Barry Lyndon di William Makepeace Thackeray. Kubrick aspirava ad una riproduzione iperrealistica della società Settecentesca europea, in cui aspetto formale e sostanziale trovassero un perfetto equilibrio. Alla mirabile composizione estetica del film corrisponde infatti la volontà di sondare gli animi dei vari personaggi, rappresentati anche nei loro comportamenti più meschini. Se in Arancia Meccanica l’ultraviolenza era tangibile nella sua prorompente fisicità, in Barry Lyndon i meccanismi si fanno più sottili, ma non meno spietati. Ne emerge il ritratto di una società classista e vendicativa, in cui l’anti-eroe protagonista è solamente una pedina che gioca una partita persa in partenza. L’accuratezza del lavoro di Kubrick e la sua coerenza nel rimanere fedele ad un progetto così ambizioso e dalla realizzazione così complessa, possono derivare solo da una profonda fede nel valore dell’arte di fare cinema.

In un articolo del 1961 Kubrick scriveva: “[…] Ogni forma d’arte correttamente praticata comporta una relazione continua fra concezione ed esecuzione, perché la concezione originale viene costantemente modificata man mano che si cerca di darle una realizzazione oggettiva. Nella pittura questa relazione avviene tra l’artista e la sua tela; quando si fa un film questa relazione avviene tra le persone.” (da S. Kubrick, Words and movies, “Sight and Sound”, n. 30, Inverno 1960-61). Possiamo quindi affermare che, in questo caso, la figura del regista si fonde con quella dell’artista e Barry Lyndon diviene la tela su cui Kubrick tratteggia la storia di Redmond Barry. È affascinante per lo spettatore addentrarsi, tramite la visione del film, nell’universo kubrickiano e assaporarne ogni piccolo dettaglio. Ogni inquadratura, ogni fotogramma è pennellato senza alcuna sbavatura. Tutto è esattamente dove dovrebbe essere, e le raffinate composizioni formali che vediamo sullo schermo evidenziano la perfetta fusione tra cinema e pittura compiuta dal regista, ispiratosi ai quadri di Hogarth e alle acqueforti di Chodowiecki. La fissità delle inquadrature su scenari dall’eleganza intrinseca, spesso immersi in un silenzio rotto solo dai suoni della natura, hanno una potenza visiva di fortissimo impatto. Del resto la grande passione di Kubrick per la fotografia si è sempre riflessa nel suo modus operandi: lo studio meticoloso delle inquadrature è appunto il suo tratto distintivo.

Ma la scelta dell’inquadratura perfetta è solo uno dei molteplici tasselli che vanno a comporre quest’opera così imponente. Dalla ricostruzione degli interni all’uso delle luci (rigorosamente al naturale), dal commento musicale ai raffinati costumi: ogni particolare è sotto il controllo del lucidissimo sguardo di Kubrick. Niente è lasciato al caso. D’altronde, se in Barry Lyndon i personaggi, buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri, alla fine sono tutti uguali, i registi di sicuro non lo sono. E Stanley Kubrick ne è la chiara riprova.

(Barbara Monti)

 

1754: Redmond Barry, giovane, bello e senza soldi, sfida per amore della cugina Nora, un capitano del reggimento militare del Regno Unito in procinto di sposarla. Dall’esito del duello, comincia il suo peregrinare che lo porta infine al matrimonio con l’aristocratica Lady Lyndon. David Bordwel e Kristin Thompson nella loro autorevole storia del cinema, a proposito del film scrivono: “Stanley Kubrick realizzò un freddo e distaccato adattamento di Barry Lyndon di William Makepeace Thackeray, trattandolo come un’occasione per fare esperimenti tecnici con un obiettivo in grado di catturare le immagini a lume di candela”. Prima di iniziare la lavorazione, Kubrick impiegò infatti un anno in una meticolosa ricerca di disegni e dipinti del ‘700. Studiò la luce, i costumi, gli ornamenti, le strutture architettoniche per rendere più reale quello che voleva rappresentare. Da qui l’utilizzo della luce naturale, grazie a lenti perfezionate provenienti dalla tecnologia spaziale. E ciò che può apparire freddo e distaccato è dato soprattutto dalla delicata ironia, registro che sottende tutto il film e che non impedisce, anzi facilita rifuggendo il melodramma, la partecipazione degli spettatori. Barry Lyndon non è una successione di belle immagini, anche se le inquadrature sono realizzate come quadri e non è semplicemente un romanzo illustrato dal mezzo cinematografico. C’è spesso uno scollamento tra la voce narrante e ciò che vediamo. I primi piani che tramite zoom all’indietro diventano piani d’insieme, collocando i personaggi in uno spazio definito, gli sguardi dei protagonisti, spesso in contrasto con la bellezza dell’ambientazione, il loro comprendersi in silenzio, rivelano più di mille parole. Siamo di fronte a un’opera complessa, ed entriamo nella storia che scorre davanti ai nostri occhi solamente perché è cinema, unica arte che consente l’immedesimazione.

L’epoca che Kubrick mostra, a dispetto dell’eleganza dei paesaggi, delle abitazioni maestose, degli abiti sontuosi, delle parrucche ricercate, è un’epoca vuota e quindi spietata. Convinto dalla madre ad ottenere a tutti i costi un titolo nobiliare, Barry prosciugherà l’ingente patrimonio della bella e fragile moglie Lady Lyndon. Non è esente da colpe. Vive in un epoca atroce e ne è inevitabilmente influenzato. Da ragazzo idealista e innamorato diventa un uomo di mezza età, alla ricerca di una donna ricca che lo mantenga. Ma è capace di un bene profondo verso il suo unico figlio e di un dolore dilaniante quando questi muore. Senza un padre, trova nel capitano Grogran, padrino nel suo primo duello, poi in Chavallier, giocatore d’azzardo costretto a vivere in Prussia ma irlandese di nascita, figure adulte a cui aggrapparsi. E’ un uomo che brucia dalla voglia di tornare nella sua terra e ne sarà per sempre allontanato. Barry muove la nostra simpatia, possiamo criticare le sue scelte, ma sempre con ironia. Lo capiamo e non l’avremmo abbandonato quando, vinto dalla rabbia, si scaglia contro il figliastro. Avremmo pianto co lui la perdita della sola gioia della sua vita. Diciamolo pure: lo amiamo e non siamo i soli. “… è impossibile non amarlo … E’ un personaggio molto reale: non è né un eroe convenzionale né un malvagio convenzionale.” (Intervista di Michel Ciment a Stanley Kubrick).

(Marcella Natale)

 

Forse nessuno si è guadagnato nel tempo l’aura di “regista intoccabile” come Stanley Kubrick. Con lui non si accettano mezze misure dinnanzi la sua titanica potenza espressiva, quindi è meglio che i suoi film ti piacciano a meno di non voler essere tacciato di non capire nulla di cinema. Barry Lyndon, visto oggi, mettendoci quindi nei panni di chi non l’ha mai visto prima, può rientrare insieme a 2001: Odissea nello spazio in tale discorso. È un film impegnativo, si prende tutto il tempo del mondo per raccontare una storia tutto sommato semplice, accompagnata peraltro da una voce fuori campo che spesso ne anticipa gli eventi, annullando totalmente eventuali sorprese. È difficile farsi coinvolgere, lo ammetto. Tuttavia, se superato questo scoglio, allora Barry Lyndon può davvero rivelarsi qualcosa di cui, piaccia o non piaccia, non si può che parlare bene. In perfetto stile Kubrick.

Nel raccontare l’arrampicata sociale del gaglioffo Redmond Barry, deciso a guadagnarsi un titolo a tutti i costi e diventare così il Barry Lyndon del titolo, Kubrick si pone una domanda: può il cinema vincere il proprio complesso di inferiorità ed eguagliare il sublime pittorico? La risposta è questa spasmodica ricerca di un avvicinamento tra le due arti. Le allusioni e i riferimenti alla pittura del Settecento inglese (e non solo) attraverso la messa in scena creano di fatto un “quadro animato”. Insieme alle immagini sfilano davanti ai nostri occhi i nomi di Gainsborough, Reynolds, Romney, Stubbs, Hogarth, Constable, Bellotto, Menzel, La Tour. Ma al tempo stesso sono poche le inquadrature che realmente portano sullo schermo quadri precisi: Kubrick fa allusioni alla pittura, non è come il Pasolini de La ricotta o il Godard di Passion che ricostruivano veri e propri dipinti al cinema. Kubrick non cita ma re-inventa la pittura del Settecento, crea quadri che nella realtà non esistono, ricrea la pittura attraverso il cinema. Dipinge con la macchina da presa.

Barry Lyndon è un atto d’ammirazione e al tempo stesso di scherno nei confronti del Settecento. Perché insieme all’inaudita cura delle immagini si aggiunge un commento divertito di ciò che vediamo. Un’ironia sottile pervade la narrazione: i soldati che in modo ridicolo vanno a morire sotto il fuoco delle baionette nemiche marciando imperterriti sulle note di The British Grenadiers, i motti di spirito sullo schermo o in bocca alla voce fuori campo, la natura ambigua del protagonista stesso, i dialoghi imbevuti di quella commistione di ironia e malinconia che gli inglesi del Settecento chiamarono “spleen”. La magnificenza del mostrato è ostacolata dal ridicolo del narrato. Il film si afferma e si nega al tempo stesso.

Ovviamente tutto ciò fu accolto freddamente dal pubblico del 1975, il quale (forse aspettandosi un film simile al precedente Arancia Meccanica) ne decretò il flop al botteghino. Nonostante questo Barry Lyndon è oggi considerato dalla critica non solo uno dei film più belli di Kubrick ma soprattutto una delle più alte vette del cinema mondiale. Rivederlo oggi significa domandarsi ogni volta come sia stato possibile realizzarlo, soprattutto è legittimo chiederselo adesso che nessuno è libero come lo era lui.

(Brando Sorbini)