Che quello dei film fluviali – liberi, lunghissimi, che procedono per accumuli, ambiziosi e caotici – sia praticamente diventato un genere è ormai assodato. Soprattutto in questa stagione, da Blonde a Bardo, passando per Babylon (ma, in fondo, non è così anche per Everything Everywhere All at Once?). Sono opere in cui autori affermati si rifugiano, sostenuti da grandi produttori che forse avrebbero voluto qualcosa di diverso (qualcosa di più vendibile magari), film che si concedono il lusso di non seguire nessuna regola, navigando a vista, in mare aperto.

A questo punto è arrivato anche Ari Aster con Beau ha paura. Un’odissea con una vita in mezzo (una nascita all’inizio e una morte alla fine). Il punto A è l’appartamento di Beau e il punto B è la casa della madre. Nel tragitto ci sono un’altra casa e un bosco. Poi dei senzatetto minacciosi, genitori apprensivi e compagnie teatrali espansive. I luoghi sono suddivisi con ordine e ritmo, il resto è un labirinto in cui tutto riconduce alla madre, ma rimanda sempre al protagonista.

La trama la fa già il titolo e, forse, ci suggerisce – oltre ai temi portanti legati a discorsi edipici, agli spunti freudiani e ai mommy issues – l’aspetto più interessante. Se con Midsommar Ari Aster aveva fatto un horror “alla luce del sole”, qui rielabora la paura senza spiriti, sette o qualsiasi altro vero motivo narrativo di terrore. Quella di Beau è più una fobia generalizzata e anticipata, ansiogena e ipocondriaca. E quando viene svelata l’identità della madre – a cui è comunque assoggettata l’origine di questa paura – il senso di colpa di Beau si materializza nell’essere stato soggetto dell’impresa commerciale di un’imprenditrice, volto del grande mercato, oggetto di una grande entità genitoriale (americana e capitalista) che lo colpevolizza.

Ma navigando questo film-fiume Ari Aster prende altre strade. Beau ha paura è inevitabilmente un film autoriferito, un viaggio egocentrico che guarda in continuazione alla sua stessa immagine. Eppure il suo protagonista non lo fa quasi mai, se non in due momenti chiave: una volta guardando un televisore, l’altra assistendo a uno spettacolo teatrale. Nel primo Beau si vede filmato e osservato (ma solo da se stesso), usa un telecomando, può andare indietro e vedere le azioni che ha già compiuto o può andare avanti e vedere quello che farà (l’andamento del film, il finale…). Nel secondo osserva uno spettacolo teatrale che mette in scena dei momenti vagamente simili alla sua vita (un uomo che piange la morte del padre e della madre).

La cosa che più ci interessa, però, è capire come ci si approccia. Dal primo è stranito e poi subito distratto (non ci deve interessare l’andamento del film? è davvero così irrilevante quello che succederà?), nel secondo invece ci si tuffa, immergendosi definitivamente in quello strano ricordo e proiezione di un ipotetico futuro immaginario in cui può permettersi di diventare vecchio, avere una famiglia, dei figli e una redenzione.

Attraverso queste scene potremmo dedurre un sistema di priorità: Ari Aster sembra disinteressato al film, all’oggetto concreto e possibile, mentre si perde nei meandri delle ipotesi, proprio come il personaggio che mette in scena, affetto da deficit dell’attenzione e iperattività. In fondo il suo cinema si interroga da sempre sulla propria natura allucinatoria. Sta succedendo davvero o è solo un’impressione? Eppure questa volta, a differenza dei film precedenti, non sembra voler cercare una risposta. È ancora disinteressato e forse, a un certo punto, non riesce più a vedersi e a ritrovarsi. È andato così oltre che si è perso.

C’è infatti un terzo momento in Beau ha paura, quello finale, in cui la vita di Beau viene messa, un’ultima volta, in scena, in un’arena/tribunale, davanti a una marea di spettatori, proiettata su quattro schermi che compongono i lati di un quadrato sopraelevato al centro dell’arena, precisamente sopra Beau. Tutti possono assistere, tranne lui, che è al centro, osservato da tutti, in balia di immagini di cui lui stesso è protagonista e nei confronti delle quali non ha più alcun potere.

Lo stesso destino spetta anche al film, che non può più difendersi da solo. E non è ovviamente il problema di un regista non in grado di tenere testa alla “troppa carne al fuoco” (al massimo è proprio il contrario) e magari non è neanche un problema di per sé (in effetti è l’unico finale possibile).

Ma al film non resta, inevitabilmente, che pagare il prezzo del proprio smarrimento e al pubblico non resta che assistere, agire incondizionatamente e poi andarsene. In un silenzio tombale.