Grecia, anni Dieci. L’americano Beckett (John David Washington) è in vacanza con la sua compagna (Alicia Vikander). Tutto sembra andare per il meglio ma poco alla volta la situazione precipita: prima i moti sociali di protesta propri di quella regione durante la crisi economica, poi un incidente stradale che strapperà la vita alla ragazza e infine una caccia all’uomo cinica e spietata apparentemente senza ragion d’essere che condannerà il protagonista di nolaniana memoria a una fuga senza tregua finalizzata alla sopravvivenza.

Durante la sua discesa agli inferi (il film inizia in cima a una fresca montagna e poco alla volta si sposta sempre più verso le torrenziali e afose strade ateniesi), Beckett (il personaggio) dovrà provare a fare ordine per cercare di mettere insieme i tasselli di un puzzle che, volente o nolente, si ritrova a dover costruire. Così, Beckett (il film) ingabbia il pubblico in un intreccio all’ultimo respiro che funziona e intrattiene a dovere, privando tanto lo spettatore quanto il protagonista delle ragioni che stanno alla base dell’enigma. Non ci si può fidare di nessuno, nemmeno di se stessi.

A sei anni di distanza dal suo precedente film, Ferdinando Cito Filomarino continua a insistere sul tema dell’identità. Proprio come in Antonia (biopic dell’artista Antonia Pozzi in cui il titolo era nuovamente il nome di una persona), anche in Beckett la cornice narrativa è solo un pretesto per lasciare spazio a una ricerca individuale.

Il personaggio interpretato da John David Washington è il classico antieroe sfortunato che si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato (un ruolo che bene o male sembra essere figlio delle interpretazioni dell’attore in Blackkklansman e Tenet). Tutto il teatro dell’assurdo (nomen omen) fatto di caldo, di proiettili, di comparse, di enigmi, di misteri che esploderà di lì a poco diventa quindi il vero ostacolo da superare non tanto per restare in vita quanto per imparare a conoscere meglio se stessi, il proprio ruolo e la propria dimensione. Come un demiurgo spietato, il regista si accanisce sul suo protagonista, rassicurando il pubblico che il film non potrebbe esistere senza la sua personalità e che quindi non c’è nulla di che preoccuparsi per la sua vita. Piuttosto, meglio concentrarsi sulle sue emozioni, sul senso di colpa che lo lega alla cara defunta e sull’amore che forse non nutre più come una volta.

Sposando uno sguardo sporco, grezzo e frenetico, la mise en abyme di Beckett funziona eccome per condurre il pubblico sulla “messa in abisso” del protagonista. Lo sforzo di provare ad aggiornare la lezione del cinema politico tanto caro soprattutto all’industria statunitense degli anni Settanta si sente e risulta una scelta indovinata. Peccato solo che il film, soprattutto nella seconda parte, poco alla volta perda lo smalto e la forza dettata dalla paura dell’ignoto: tutto viene (prevedibilmente) a galla e la maldestra componente action sembra quasi voler celare una lacuna narrativa un po’ troppo evidente e non pienamente riuscita nel cercare di trovare una sintesi tra Stati Uniti e Grecia, tra individuo e collettività, tra chi inventa storie (il regista e lo stesso protagonista all’inizio del film) e chi le vive per cercare di ritrovarsi.