Pochi registi hanno saputo esprimere la sensorialità attraverso l’immagine al pari di Paul Verhoeven. Autore polimorfo per eccellenza, sostenuto da una carica creativa incontenibile in grado di abbracciare il cinema nella sua vastità, riscoprendosi ora cauto artigiano di racconti intimi e circoscritti e in seguito esplosivo autore di epiche smisurate e dilaganti in universi alternativi, virtuali, alieni. Ma che si tratti del connubio stridente fra corpo umano e macchina o della dolce scoperta dell’altro in un rapporto amoroso, per Verhoeven il cinema deve essere percepito come un’esperienza tattile.

Non fa eccezione Benedetta, ultimo lavoro dell’inossidabile cineasta olandese, giunto finalmente nelle nostre sale a oltre un anno e mezzo di distanza dalla sua presentazione alla settantaquattresima edizione del Festival di Cannes. Nel suo irriducibile peregrinare fra epoche, mondi e generi diversi, Verhoeven approda ora nella Toscana del XVII secolo, con un dramma biografico dedicato alla figura di Benedetta Carlini, badessa del convento di Pescia privata del suo incarico a causa di una relazione intrattenuta con una delle sue sottoposte.

Una vicenda intrisa di ambiguità, la quale viene qui esplorata attraverso uno sguardo che aderisce a quello della protagonista (una Virginie Efira straordinariamente in parte), per dare forma non tanto ad un manifesto polemico nei confronti dell’autorità ecclesiastica, quanto più ad un doloroso (ma anche suadente) percorso alla ricerca della libertà.

Verhoeven non cerca la sensazione o il clamore, non aggredisce l’iconografia religiosa con la furia blasfema attraverso cui, ad esempio, Ken Russell si faceva beffa dell’ipocrisia cattolica nel suo I diavoli (1971). La rigidità monasteriale, custodita dalla glaciale Suor Felicita di Charlotte Rampling, diviene l’arida culla in cui l’essenza di Benedetta trova il modo di espandersi.

Le visioni che agitano le sue notti e turbano le sue giornate sono l’ultima barricata di un costrutto opprimente, destinato ad essere eroso dall’emersione del piacere, quell’Es freudiano latente ma impossibile da contenere. Non a caso, le sequenze oniriche, segnate dalla volontà di circoscrivere le pulsioni all’interno di un casto amore verso la divinità, assumono spesso dei risvolti tenebrosi e violenti, laddove invece la vera estasi è legata al piacere carnale.

È infatti solamente tramite il contatto, fisico ed emotivo, con la giovane Bartolomea (Daphné Patakia), che Benedetta trova la sua vera vocazione, il rinnovo della fede attraverso il soddisfacimento del proprio indomabile basic instinct. Niente dolore, niente penitenza, solo il raggiungimento di una letizia lungamente predicata ma mai veramente vissuta. Allora ecco che anche l’utilizzo di una statua della Vergine come strumento per il piacere sessuale perde gli sporchi connotati del sacrilegio per assumere un’aura immacolata. Perché qualcosa di così appagante non può essere sbagliato. In questo modo viene ribadita l’importanza del potere sinestetico dell’immagine, con Verhoeven che riesce nuovamente nell’impresa di attribuire una consistenza tangibile alle sue scene.

Resistendo alla diffusa tentazione di appesantire il discorso con spiegazioni superflue, a questo straordinario autore bastano lo spazio dell’inquadratura, la composizione degli elementi e il contatto dei corpi per esplicitare la complessità del sottotesto. Il dolore della repressione è percepibile quanto il piacere degli attimi di libertà e a questi due stati, disforico ed euforico, sono saldate le implicazioni morali di cui si fregia il film.

Un film che parla di immoralità senza mai condannarla apertamente, così come non condanna la fede incrollabile della protagonista, né la sua ingenuità di fronte alla natura contraddittoria delle sue azioni. Perché, per quanto ambigua possa sembrare, quella a cui assistiamo è la sua verità, ciò in cui crede strenuamente, in modo incondizionato.

E in un mondo in cui l’autorità vorrebbe che tutti recitassero “la propria parte fino alla fine”, il definitivo atto di ribellione è quello di credere a ciò che è profondamente sentito come giusto e agire di conseguenza.