Se c’è una cosa che l’Australia ci sta facendo capire da tempo è che tra quei deserti di terra bruciata, polvere e fauna stupenda, ci deve essere qualcosa che spinge le persone a vivere sulla sottile linea rossa che divide la genialità dalla follia. Non è dato sapere se sia nell’aria, nel cibo o nell’acqua. Magari sono i canguri. Un morso e via, sei subito genio. Pazzo ma genio. Altrimenti come si spiega l’headbanging forsennato e impossibile di Angus Young? Un comune mortale si spezzerebbe l’osso del collo dopo cinque minuti ma lui niente, tiene botta per due ore di concerto suonando come un Dio e portando ogni volta gli AC/DC nell’olimpo del rock con la sua immancabile divisa scolastica dalla quale pian piano puntualmente si libera, denudandosi. Come possiamo spiegarci il percorso artistico di George Miller? Colui che nei primi anni Ottanta inventa di fatto un genere cinematografico, il post-apocalittico, con il trittico di Mad Max, poi mette il suo enorme talento a disposizione di maialini coraggiosi e pinguini ballerini (vincendo pure un Oscar), e quest’anno torna sorprendentemente alle origini con l’adrenalinico e sconvolgente Mad Max: Fury Road. I canguri nascondono qualcosa, questo è certo. E la storia di Dub FX ne è ulteriore conferma.

Figlio di madre lucchese e padre australiano, Benjamin Stanford nasce e cresce a Melbourne, nell’Australia sud-orientale. A 19 anni il morso del canguro e parte per l’Europa. Unico obiettivo: esibirsi per le strade delle grandi città proponendo la sua innovativa miscela di drum ’n’ bass, dubstep, beatbox, hip-hop e reggae. Per anni vive in un furgone arrangiandosi come può, collaborando con vari artisti e registrando dischi autoprodotti. Poi arriva l’amico che gli fa la domanda della svolta: e se provassimo a filmare le tue performance e metterle su YouTube? E così nasce il fenomeno Dub FX. In ogni parte del mondo gente impazzita per la sua musica condivide i video su Facebook e Twitter elargendo frotte di “mi piace” e migliaia di commenti. E Stanford cavalca intelligentemente l’onda creando, dopo il canale YouTube, anche la pagina Facebook ufficiale del progetto, dalla quale tiene i fan costantemente aggiornati su ogni suo movimento.

Ma prima o poi dopo il genio arriva anche il secondo effetto del morso: la pazzia. E Stanford è decisamente un folle se osservato dal punto di vista cinico e consumista del capitalismo contemporaneo. Perché non ha un’etichetta e non la vuole, continua ancora oggi con le autoproduzioni rinunciando spesso e volentieri a contratti per i quali la maggior parte dei musicisti di oggi venderebbe la propria madre, ma che secondo lui lo snaturerebbero. Perché nella sua visione del mondo la musica è un mezzo, non il fine. È più importante il viaggio della destinazione. Stanford inoltre si fa audace portabandiera della condivisione digitale libera, senza vincoli, perché sa che la storia della pirateria che distrugge la musica è una bugia inventata dal sistema. La musica vive di concerti, il resto sono solo preoccupazioni da discografici. Ma la vera provocazione è sicuramente quella di farcire i testi delle canzoni con messaggi di pace, amore e fratellanza universale, e sulla scia del suo maestro Bob Marley ci invita a “don’t give up, we’re gonna make it in the end, don’t give up, tell your neighbor, tell your friend”. Imperdonabile al giorno d’oggi. Allora sei matto davvero.

Tutto questo è raccontato in tre quarti d’ora da applauso, durante i quali Francesco Tomei dimostra tutta la sua bravura e professionalità con macchina da presa e montaggio. Il documentario realizzato dal giovane regista romano sulla figura di questo Banksy della musica, è un’opera prima dal ritmo pazzesco, che cattura e convince attraverso la potenza delle esibizioni dal vivo del protagonista e la sua ficcante retorica durante le interviste. Imperdibile.