Il passato, gli sbiaditi ricordi d’infanzia e quelle memorie che non si lasciano attraversare dalla luce del tempo presente non tornano per opera dell’intelligenza né possono essere recuperati con un processo logico-deduttivo prestabilito, ma ci appaiono, stando alla riflessione di Umberto Eco, come “misteriose fiamme”. L’attrice norvegese Gorild Mauseth, prossima all’interpretazione di Anna Karenina (rigorosamente in russo, per lei che di russo non sapeva neanche una parola), intraprende un percorso di progressivo disvelamento del proprio io, un io che poi vedremo sdoppiarsi e perdere quasi coscienza della propria appartenenza fisica, e non fittizia, nel mondo.

D’altra parte, il rischio di quando si fa teatro è quello di smarrirsi in una coscienza e un vissuto altrui, rendendo sempre più labile il confine tra realtà e finzione e dissolvendosi negli uno, nessuno e centomila sé che ci contraddistinguono. Karenina & I oscilla ma non cede alla pericolosità di questo innaturale equilibrio, raccontando il recupero del patrimonio di vestigia della Mauseth, nonché moglie del regista, attraverso le letture e riletture di Tolstoj e il significato della sua esistenza in relazione a quella di Anna Karenina. Entrambi sono abbandonati a loro stessi, privi di quelle radici che il protagonista di un famoso romanzo di Eco recupera tornando nel luogo natio e toccando oggetti che alludono ad un’altra realtà dietro la forma, lo stesso che poi farà Gorild. Entrambi col cuore straziato per la perdita di un amore che cercheranno di vivificare, riuscendoci o illudendosi nella vanità del proprio sogno disperato. Entrambi destinati a morire in una stazione.

 Tornando e ritornando sull’io dell’attrice, partendo da un punto preciso, abbandonandolo e poi riprendendolo la narrazione infrange l’idolo della linearità procedendo alla stregua di un flusso di coscienza in stile Malick e la voce fuori campo di Liam Neeson, che da voce alle parole di Tolstoj, come anche le insistenti domande di senso dell’attrice (“Chi sono?”, “Perché sono qui?”, “Cosa mi attende dopo?”) ne sono una nitida reminiscenza. Tommaso Mottola vela di straziante delicatezza un racconto pressoché ordinario, riflettendo sul senso della letteratura, del cinema e, principalmente, del ruolo dell’attore. La meraviglia che ne scaturisce deriva dalla consapevolezza della vitalità e passione ascrivibili all’universo di un personaggio letterario come quello creato da Tolstoj e dalla prova che un tale artificioso microcosmo possa effettivamente diventare un vero paradigma esistenziale.