Smascherando la falsa tolleranza e il pregiudizio borghesi nei confronti di una donna che verrà poi trattata alla stregua di un oggetto, quasi carne da macello, Una mujer fantástica milita con forza sulle scie del cinema LGBT contemporaneo: il cileno Sebastián Lelio analizza il travaglio esistenziale di Marina Vidal, giovane donna transgender sconvolta dalla morte improvvisa del suo compagno di vita.  

Con inquadrature e sequenze - finezze meramente formali - che rimandano all’intemperanza di Almodovar e François Ozon nel trattare tematiche di genere, senza mai sfociare nell’ironia tragica dell’uno o negli assurdi paradossi dell’altro, Lelio mantiene una certa moderazione, forse troppa, nell’esplorare le pareti interne di questa storia.  È come se il dramma non si consumasse mai sia dentro la protagonista che fuori, tenendo sospeso e precario il ritmo della narrazione, se non negli ultimi cinque minuti del film: una vera e propria rivalsa, da parte di Marina, nei confronti di tutto l’odio e gli sguardi sprezzanti di disgusto e paura che, invece di ucciderla, la aiuteranno a fortificare forza interiore e intima coscienza di sé e della propria sessualità. 

Nel corso di tutto i film si susseguono domande circa l’identità di questa donna, di questa “cosa”, domande che, tuttavia, sembrano turbare la protagonista soltanto in superficie, sottolineando un presumibile vezzo, un triste andazzo che si prolungava da troppo: l’essere vista come la conseguenza di una squallida perversione, senza la possibilità che in lei ci sia amore o il barlume di una qualsivoglia emozione. In questo modo, con un dramma sfiorato solo in apparenza e intermezzi pop alla Xavier Dolan, Lelio torna a raccontare le contraddizione insolute della sua terra natia, un Cile ancora cieco e vile, un paese dalle congiunture flessibili in cui l’uguaglianza di genere risulta ancora essere un’utopia.