Amico sei un bambino, fai un gran chiasso/ mentre giochi per la strada, "sarò un grand'uomo un giorno!"/ hai del fango sulla faccia, disgraziato, prendi a calci quel barattolo di qua e di là..

È iniziata con un artista trascinato giù dal palco. Risale al 4 dicembre 2017 la notizia che Bryan Singer era stato scaricato dalla produzione di Bohemian Rhapsody, biopic sui primi quindici anni della carriera dei Queen e Freddie Mercury. Fra le versioni delle due parti, con lui furioso perchè a suo dire la 20th Century Fox non gli dà modo di far visita a un parente malato terminale e loro che lo accusano di scarsa professionalità, di uguale c'è solo che nell'ultimo periodo il regista era sul set a intermittenza, poi ha smesso di presentarsi. Portato a termine il film con la supervisione di Dexter Fletcher si è comunque deciso di accreditare il solo Singer, e anche in un lavoro interrotto come questo è chiaro cosa guidi il regista di I soliti sospetti verso il leggendario frontman dei Queen, ad oggi, quasi trent'anni dopo la morte nel 1991 per polmonite aggravata dall'Aids, mito trasversale come se ne contano sulle dita di una mano.

Entrambi artisticamente precoci; entrambi un problematico lascito culturale a cui far fronte, ebreo newyorkese l'uno, britannico nato a Zanzibar da genitori Parsi l'altro; entrambi – pur in anni e contesti molto diversi – icone lgbt, il regista per film come L'allievo (1998) e la neanche tanto velata equazione mutanti/diversi nei suoi primi, imprescindibili e politicissimi X-Men, in ambo i casi con al fianco un Ian McKellen pre-Gandalf noto al grande pubblico soprattutto per la recente nomination all'Oscar in Demoni e dei (1998) in cui interpretava un'altra grande figura di emarginato, il regista di Frankenstein James Whale.

Più che cercare il fango dietro le pose di The Great Pretender come Sacha Baron Cohen, prima scelta per interpretarlo e a sua volta prontamente defenestrato, Singer - lo può solo un fan nella sua innocenza o all'opposto qualcuno che ha toccato con mano cosa significhi un certo tipo di palcoscenico – ha davanti un uomo unico per com'è riuscito ad essere di tutti ("sono solo una prostituta musicale, my dear") mantenendo umanità e franchezza, a vincere dopo molti round il veleno inebriante del successo trovando rifugio nella dimensione domestica e catarsi nell'amore del pubblico, capace all'estremo saluto di stringerlo in un abbraccio collettivo riservato nemmeno a tutti gli dèi ma a quegli dèi, Lari familiari impossibilmente vicini come John Lennon o Lady D.. e chiede: come?

Amico sei un giovane uomo, un duro/ gridi per la strada "mi prenderò il mondo un giorno!"/ hai del sangue sulla faccia, disgraziato, agiti la tua bandiera di qua e di là..

Singer il predestinato, l'enfant prodige che regalò Keiser Soze a noi e due Oscar a Kevin Spacey e Christopher McQuarrie, ha scontato il peso di quella prima promessa. Ancora oggi, dopo ventitrè anni e svariate prove importanti fra cui, giova ribadire, un dittico che apre de facto la stagione del superhero movie moderno, fra riprese e continue ricadute (commerciali come Il cacciatore di giganti o professionali come Bohemian Rhapsody) la vera gloria resta legata alla sua folgorante opera seconda. Freddie Mercury invece – l'ha detto Rami Malek sul red carpet di Wembley - è una stella che non avrebbe dovuto esserlo: nato in una famiglia agiata e che lo amava ma ne disapprovava le ambizioni artistiche, ha fatto il facchino all'aeroporto di Heathrow e si è scontrato su più fronti con la difficoltà di integrarsi. "Scalmanato fin da bambino" lo descrive a un certo punto il padre; lo vediamo in una foto ingiallita che ne ricorda il passato di piccolo talento della boxe ed è difficile non tracciare un filo fra quei pugni alzati e la forza della natura che anni dopo avrebbe soggiogato folle di centinaia di migliaia di persone.

Nasce come Farrokh Bulsara, destinato a una solida carriera impiegatizia. Ma le idee della famiglia - la prima delle tante che sono il cuore del film - gli vanno strette. Cambia il nome, non basta, cambia anche il cognome. Comunicatore come il messo degli dèi greci, imprendibile e polimorfo come il metallo liquido, irrequieto ("mercuriale") per antonomasia, il Freddie di Bohemian Rhapsody non si ferma mai e così il racconto, che corre in ordine cronologico ma senza tempo né voglia di scendere in dettagli sul processo creativo, le psicologie dei comprimari o la ricostruzione storica. I realizzatori lo sanno: parliamo della band che ha fatto del puro piacere per lo show il senso stesso dello show, per questo la critica li stroncava e per questo sono stati e sono amatissimi. Tanta leggerezza non è solo il modo migliore per “impacchettare” la loro storia; è forse l'unico modo onesto di raccontarla. Che importa allora se si esagera un po', fino a far sembrare che le abbiano inventate loro le canzoni di sei minuti, fino a farne paladini dell'avanguardia anziché artigiani pop fra i più furbi e smaliziati della loro epoca? “Let me entertain you” cantava Mercury levando il bicchiere di champagne. Sfida raccolta.

La nascita di hit stritolaclassifiche come We Will Rock You o Another One Bites the Dust è raccontata con una naïveté che se non si è puristi e si vuole bene al gruppo non mancherà di conquistare. Al centro sempre lui, guidato da un talento mostruoso ma anche da una forma di autodisgusto che parte dall'aspetto fisico (i denti sporgenti che nascondeva con la mano durante le interviste) e continua col rifiuto da parte dei genitori, l'iniziale difficoltà ad accettare le proprie inclinazioni sessuali, la paura di perdere per questo la compagna dei primi anni Mary Austin. “Essere umani è una condizione che richiede qualche anestetico” le dice in riferimento ad alcool e cocaina ma alla sua stessa spinta creativa, al suo approccio dolce e triste, da vecchia diva alle scene (adorava Viale del tramonto e la Minnelli di Cabaret) e alle metamorfosi stilistiche del gruppo, la rincorsa monetaria delle mode come sublimazione del desiderio umanissimo e universale di venir sempre nuovamente accettati.

Questo signore non sembra mai piacersi fino in fondo, il che è fondamentale per la sua arte – bella la notazione sull'origine dell'iconico microfono a mezz'asta da un errore in palcoscenico - ma lo costringe a cercare continuamente scampo dalla solitudine della propria maschera. “You've left me to dream all alone...” delle sue tante famiglie una – la compagnia di sconosciuti alla sua “corte” nella vita notturna dei primi anni '80 – lo condanna a morte. Ma ha ormai chiara la differenza fra amore e idolatria e può ritrovare le altre: i genitori, Mary, la band, “un vero amico”.. e Wembley. In questo l'escapismo disneyano di Bohemian Rhapsody trova il contraltare, la sua ombra, il suo rovello autoriale: memento agghiacciante a chi la luce dei riflettori ha convinto, per un solo secondo, che tutto fosse andato al suo posto.

Amico sei un vecchio, un pover'uomo/preghi con gli occhi di trovare un po' di pace un giorno/hai del fango sulla faccia, disgraziato, meglio che qualcuno ti rimetta al tuo posto.

We will, We will rock you!

We will, We will rock you!  ..”