Una serata come tutte le altre – o forse no – in un ristorante d'alta classe di Londra: prenotazioni in overbooking, visite inaspettate dell'ufficio d'igiene, cuochi superstar e critici gastronomici fra gli avventori, clienti prepotenti e razzisti. Dietro le quinte ovattate ed eleganti, lo staff di servizio cerca affannosamente di arrivare alla fine del turno, fra tormenti intimi, tensioni all'interno del gruppo e inconfessabili difficoltà economiche.

L'ambiente della ristorazione professionale continua a suggestionare l'immaginario dei nostri anni, non solo negli innumerevoli programmi televisivi ma anche nella serialità e nel cinema (basti pensare all'attuale enorme risonanza di The Bear, e all'arrivo pressoché contemporaneo in sala di The Menu), forse per la sua capacità di micronizzare in un universo circoscritto dinamiche essenziali della società contemporanea: la cooperazione e il conflitto fra gli individui, la necessità della performance in condizioni di elevato stress, la gerarchia del potere.

In Boiling Point – Il disastro è servito, Philip Barantini ne porta in scena la propria convincentissima versione adattando il suo omonimo cortometraggio del 2019, di nuovo assieme al co-sceneggiatore James Cummings. Non c'è più alcuna fascinazione per il cibo e la creatività culinaria – aspetti di norma presenti in questo genere di ambientazioni – e ci si immerge invece in un'atmosfera thrilling in cui la catastrofe sembra sempre dietro l'angolo.

L'utilizzo di un unico piano sequenza per l'intera durata del film, con la macchina da presa che si sofferma su una “scena” per poi ripartire alla volta della successiva, è tutto tranne che un pezzo di bravura fine a se stesso. Dispiega invece le possibilità del montaggio interno nella sua accezione più nobile, completamente funzionale a una rappresentazione della vita in cui le interazioni umane si fanno veloci, incessanti e sfinenti.

La camera a mano, spostandosi in tempo reale dall'uno all'altro personaggio, rende ognuno a suo modo solo dentro al mondo circostante, ciascuno in balia del rischio di errore, nessuno sicuro di riuscire a sostenere ciò che è chiamato a fare. Boiling Point disseziona il concetto di successo professionale con amarezza e una punta di beffardaggine, continuamente smentendo le abituali convinzioni sui privilegi del potere, fra chef e sous chef affogati in un'ansia tracimante, camerieri maltrattati ai tavoli ma già rivolti col pensiero ai divertimenti fuori dal lavoro, lavapiatti che se la spassano bellamente mentre gli altri faticano.

Al fortissimo sapore di realtà contribuisce in maniera determinante un ensemble di straordinari interpreti, Stephen Graham e Vinette Robinson in testa. Quest'ultima ha rimarcato come la forte pressione nel girare un film in un unico piano sequenza, improvvisando parte dei dialoghi, abbia contribuito all'espressività degli attori: dopo qualche lezione di cucina e fatte le prove generali, sapevano di avere a disposizione solo otto take finali, fra i quali sarebbe stato scelto il migliore. Poi è arrivato il COVID-19, e ci si è addirittura dovuti fermare a quattro: e così, buona la terza. Non solo buona, molto di più.