Bones and All, oltre ad essere il titolo del romanzo di Camille DeAngelis da cui Luca Guadagnino trae il suo ultimo film, è un termine usato in riferimento alla pratica di mangiare un corpo per intero. In italiano può essere tradotto come “fino all’osso”. Nel film compare a metà, quando Maren e Lee incontrano un cannibale (come loro) che sostiene di voler iniziare una persona al cannibalismo proprio attraverso questa pratica, spingendo così i due protagonisti spaventati ad allontanarsi.

È un dialogo tra “addetti” questo appena citato, perché Bones and All non sembra interessato al rapporto cannibale/non cannibale, ma ai rapporti interni: sentimentali (ovviamente), ma anche e soprattutto etici e generazionali. Là dove – per rifarci a un esempio del cinema contemporaneo – il cannibalismo di Raw (esordio di Julia Ducournau) era un mezzo per parlare di identità, Guadagnino declina il discorso verso una direzione più orizzontale, facendone una storia d’amore e un viaggio attraverso un’America di emarginati che si riconoscono in un gruppo e si trovano in conflitto esclusivamente su altri piani.

La storia è quella di Maren, giovane ragazza cannibale che, compiuti i diciotto anni, viene abbandonata dal padre e, nel suo vagare ai margini dell’America, scopre altri come lei, quasi come scovare un mondo sotterraneo. Tra questi incontra Lee. I due sono simili, più di altri, e insieme intraprendono un viaggio.

La struttura, infatti, è quella del road movie. Ad ogni Stato corrisponde un capitolo e ad ogni capitolo un lato di America nascosto, buio e marginale. Ma più che gli Stati attraversati, sono i volti ad essi collegati a rappresentare l’America raccontata da Guadagnino (è la prima volta che si confronta direttamente con questa nazione, escludendo la serie We Are Who We Are, dove trapelava come indiretta e “a intermittenza”, ma comunque protagonista). Un’America quotidiana, di anziane signore, uomini arroganti nei supermercati e truffatori da Luna Park, sempre dotati di “identikit memoriali”: fotografie, macchine, case, oggetti.

Volti di un’America che viene fagocitata. E qui sta il fulcro generazionale. Bones and All, come immaginabile, è un film che parla dell’affrontare la propria natura, combatterla, accettarla, contrattarla e interpretarla eticamente. Maren lo fa confrontandosi con diverse personalità: anziani che ritualizzano il processo, adulti che si “autocannibalizzano” e giovani che procedono con un’etica personalissima ma non sempre stabile. Tanto da poter affermare che la differenza generazionale, secondo Bones and All, è anche e soprattutto qualcosa che ha a che fare con l’etica e la morale.

Nelle differenze, il gruppo si riconosce simbolicamente attraverso un unico senso: l’olfatto (quello che riusciva a distinguere e non permetteva di camuffare le classi sociali in Parasite). Lo troviamo ancora strumento di riconoscimento, da cui non si può scappare, ma anche freccia al proprio arco, arma predatoria per seguirsi, uccidersi o salvarsi. Per un racconto in cui il sangue è sesso. L’amore è cannibalismo, fino all’osso. Marginale. Come questo film sa essere. Così come la generazione raccontata.