Quasi sei anni fa veniva presentato al Sundance Film Festival un film che di lì a poco sarebbe diventato un cult contemporaneo, che avrebbe confermato agli occhi del mondo il talento del suo regista e che avrebbe attirato l’attenzione su una delle giovani star più promettenti di oggi. Il film in questione era Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, titolo che si finisce inevitabilmente per chiamare in causa parlando di Bones and All. Almeno sulla carta, infatti, Chiamami col tuo nome è il film più vicino alla nuova fatica di Luca Guadagnino, in quanto quest’ultima è stata promossa, sin dal suo sviluppo, come il racconto di una grande storia d’amore dalla portata universale.

Il colpo di genio di Guadagnino – e della strategia promozionale intorno al film – sta nel sovvertire già dai primi minuti quelle aspettative e confezionare una formula che in mano a qualcun altro avrebbe potuto prendere una deriva disastrosa: Bones and all è un film che fa incontrare una storia d’amore con il cinema on the road, caratteristico della narrativa statunitense, e con l’horror, non un horror politico e sofisticato come Suspiria (2019), ma un horror molto più carnale, con rimandi a George Romero e a Il silenzio degli innocenti (1991) di Jonathan Demme.

Una commistione di generi che funziona, con un’eleganza ed una delicatezza difficile da immaginare a priori, che però è coerente con quell’idea che Guadagnino ha dell’adolescenza, che già si percepiva in Chiamami col tuo nome, ovvero un’età della vita in cui si è affamati, voraci e in cui il corpo è la rappresentazione di questa insaziabilità. Non c’è solo quello, ma anche un racconto di marginalità, dove i protagonisti, due reietti, devono trovare un proprio posto nel mondo e lo trovano soltanto l’una nell’altro. Due personaggi (Taylor Russell e Timothée Chalamet) che sono allo stesso tempo vittime e carnefici e che solo in mezzo ai propri simili possono vivere per chi sono davvero. Nel corso della narrazione, Maren e Lee (questi i nomi dei due protagonisti) conosceranno altre persone come loro, tra cui Sully, interpretato da Mark Rylance, figura che risulta estranea all’atmosfera generale del film, ma che è funzionale a quello che sarà il finale della vicenda.

Sono quindi personaggi che riconquistano il proprio diritto di esistere solo in relazione all’altro. Parafrasando le parole dello stesso Guadagnino, Bones and All è un film sulla solitudine, che può essere spezzata solo dallo sguardo che l’altro rivolge a noi. Gli anni ottanta, in cui è ambientata la vicenda, molto diversi dagli anni ottanta di Chiamami col tuo nome, sono gli anni di Ronald Reagan, gli anni in cui nell’America rurale chi è diverso deve fare tutti i giorni i conti con la propria anormalità in un mondo di normali. Ma gli anni ottanta sono anche gli anni in cui il movimento LGBT dovette scontrarsi con la tragedia dell’AIDS, che finì per alimentare i pregiudizi e la discriminazione nei confronti della comunità gay. Nonostante il film di Guadagnino non faccia mai esplicito riferimento a quell’argomento, è possibile leggere in Bones and All una metafora di tale situazione e, ancora di più, vi si può operare una lettura in chiave queer, giustificata anche dal fatto che i personaggi vivono una sessualità fluida, tutt’altro che normata.

Guadagnino racconta questa fluidità con uno stile che è a sua volta fluido, non catalogabile, che si muove su un binario tutto suo, tra concessioni pop e istanze profondamente autoriali. Bones and All è un film che, come i suoi protagonisti, vive di un’atipicità stilistica che riflette i temi del suo film. E che non è quindi semplicemente una scelta artistica, ma anche politica.