“Lo spunto è stato per me una foto di Aldo Moro in doppiopetto, un tessuto leggero forse di lino, su una spiaggia a Torvaianica, con giacca e cravatta e attorno tanti bambini in costume. E lui, impassibile, si fece fotografare”. Con queste parole il regista Marco Bellocchio introduceva al pubblico della sedicesima edizione della Festa del Cinema di Roma le prime immagini del suo nuovo lavoro (Esterno notte) sul caso Moro, a 44 anni dalla sua uccisione.
Il regista piacentino, autore di Buongiorno, notte, ribalta il campo e guarda fuori, mettendo a fuoco i personaggi che vivono “esternamente” la prigionia del presidente della Democrazia Cristiana. Qui invece Bellocchio prova a raccontare “gli interni” di quella che fu la notte più buia della Repubblica Italiana, ciò che succede dentro l’appartamento di Via Montalcini.
Dissolvenza in entrata, schermo oscurato. Poi una battuta pronunciata dal personaggio dell’agente immobiliare: “Buongiorno Ingegnere. Buongiorno signora”. Al minuto 2.47, l’Ingegner Altobelli a sinistra rimane al buio dell’inquadratura; a destra dello schermo, troviamo Chiara illuminata dalla luce del giorno. Bellocchio, avverte subito di non essere fedele all’indagine storica e impugna la poesia che “dice piuttosto gli universali”, ci ricorda Aristotele nella sua Poetica, trasportando quell’ossimoro di Emily Dickinson nella sintassi filmica.
Niente film d’inchiesta alla Ferrari e Martinelli, il pubblico sa già. Piuttosto, via “i pugni in tasca” e tutti in scena a costruire e montare emotivamente questo racconto, re-immaginando la prigionia dei 55 giorni dello statista italiano. Il personaggio di Chiara (Maya Sansa), infatti, non è mai lasciato solo dallo spettatore, mentre nel buio dell’appartamento, si aggira il fantasma dell’onorevole Moro tra le contraddizioni profonde e irrisolte di una morte annunciata. Alla base del film, il libro Il prigioniero della brigatista Anna Laura Braghetti, colei che fu la vera carceriera del politico e a cui il regista regala tutta la sua attenzione, lasciando gli altri personaggi privi di spessore psicologico. Meri manichini, orfani di padre.
A niente servono, le lettere che il Presidente scrive alla moglie. Solo Chiara si ammanta di umanità e compassione, tanto da correre immediatamente con il pensiero alle lettere dei condannati a morte della Resistenza uccisi durante il fascismo. E sebbene non arrivino le urla della brigatista, alle parole strazianti dei “padri” della Liberazione, irrompe la struggente The Great Gig in The Sky dei Pink Floyd insieme a quell’altro “padre” di Rossellini che, con frammenti cinematografici simbolici, penetra nelle trasmissioni televisive Rai continuamente interrotte da edizioni speciali.
I grandi padri sfilano nei tragici eventi del 1978. “A mio padre”, è la dedica nei titoli di testa della pellicola. Bellocchio ci fa pace. Fa pace anche con Moro e lo lascia libero una mattina di pioggia, nelle strade di una Roma deserta e distratta. Il padre sopravvive al “più alto atto di umanità possibile in una società divisa in classi", compiuto dai figli.
Poi, è di nuovo buio. La sequenza finale dei funerali nella Basilica di San Giovanni in Laterano con le facce di allora, mummificate, spettrali, metafisiche, mentre esplode la musica dei Pink Floyd, ci riporta nella realtà storica. Il sogno è finito. Ai nipoti di quei padri, restano “quegli occhi ormai perduti di chi è destinato a restare solo. Per sempre”
"Presidente, ha capito chi siamo"?
"Ho capito chi siete".