Il film di Woody Allen continua a far discutere gli appassionati, come sempre divisi tra chi lo giudica prevedibile e coloro che lo trovano irresistibile. Cinefilia Ritrovata ci torna su, proponendo questa volta una riflessione sulle musiche e la loro funzione.

Avevamo davvero bisogno di Café Society? Come ogni anno, all’uscita del nuovo film di Woody Allen, la domanda sorge spontanea, soprattutto tra le cerchia di coloro che il prolifico regista newyorkese l’hanno sempre seguito e che, in ogni caso, non possono perdersi neanche un suo lavoro. In questo suo 46esimo film dietro alla macchina da presa, Allen si diverte a celebrare con altre vesti le magnifiche illusioni di sempre, quelle di esistenze incantevolmente in bilico, attraverso la creazione di suggestioni cinefile che richiamano la commedia sofisticata di Lubitsch. Illuminati dai colori caldi della fotografia di Vittorio Storaro, i personaggi di Café Society, si muovono nella Golden Age Era di Hollywood, tentando di rassomigliare a “tutta quella gente là sullo schermo”, per citare Hannah e le sue sorelle, ma senza riuscire a sfuggire alle loro agrodolci illusioni nel reale. Lo schermo, il silver screen, continua a essere il solo e unico luogo in cui (ir)reale e sogno combaciano, proprio come Allen aveva sottolineato ne La rosa purpurea del Cairo. Anche stavolta siamo sempre negli anni ’30, ma immersi nel mondo patinato della fabbrica dei sogni hollywoodiana. Proprio qui arriva il giovane Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg) nella speranza che lo zio (Steve Carell), agente cinematografico di successo, lo aiuti a sfondare nel settore. A Los Angeles il nuovo arrivato incontra anche Vonnie (Kristen Stewart), una delle poche persone a non essere rimasta corrotta dallo stile vizioso della città. Indubbiamente i due si innamorano e decidono di andarsene a New York, ma lei ama anche un altro uomo, così tutto dovrà essere rimesso in discussione fino alla finale consapevolezza che i sogni e le illusioni sono congeniti alla natura umana.

Se nel 1977, momento in cui Allen non era giunto a una piena consapevolezza riguardo all’utilizzo della musica nei film, Annie e Alvy si salutavano sulle note di Seems Like Old Times mentre si parlava di uova, in Café Society la colonna sonora è strutturata sulle malinconiche consapevolezze, come accennato anche nello script, degli standard di Lorenz Hart e Richard Rodgers. In questo senso le liriche delle canzoni vanno a descrivere l’evoluzione del protagonista e il rapporto che lo lega alle due donne della sua vita. Perciò se l’innocenza, la giovinezza e l’amore per Vonnie sono rappresentati da pezzi come I Didn’t Know What Time It Was, nella versione di Benny Goodman, e The Lady is a Tramp, l’incontro con Veronica (Blake Lively) e l’ingresso nella decantata Café Society sono orchestrati sulle esecuzioni diegetiche di Mountain Greenery e Jeepers Creepers (composta da Johnny Mercer).

Ancora una volta Woody Allen si avvale di quella pratica del riuso di pezzi esistenti che, nelle sue mani, arrivano a implementare il loro bagaglio simbolico. In particolare sono due gli standard che si fanno metafora dei sentimenti alleniani, I Only Have Eyes For You (composta da Harry Warren) e Manhattan, entrambe connesse ai personaggi di Bobby e Vonnie. Mentre la prima resta legata alla memoria dei giorni trascorsi nei cinema di Los Angeles, la seconda porta con sé l’illusione di poter rivivere ancora i sogni perduti a New York, città da cui il personaggio alleniano trae linfa vitale e in cui, allo stesso tempo, ha bisogno di illudersi per essere felice. Nel luogo dei teatri di Broadway e in cui la cheescake più buona è quella di Lindy’s, infatti è anche possibile abbracciare il vero amore proprio come sul grande schermo, anche se solo per un instante. Woody Allen tutto questo l’ha già detto, è vero. Ma chi continua a guardare i suoi film vuole provare ancora una volta le stesse sensazioni corroboranti, vuole sentirsi dire ancora una volta che “la vita è una commedia scritta da un sadico che fa il commediografo.” Per questo motivo guardare Café Society è un po’ come tornare a casa.