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Il cinema degli anni Ottanta o della realtà prima del multiverso

Con film come La storia infinitaNightmarePoltergeist e altri, pur nel solco di una tradizione narrativa che possiamo far risalire almeno al carrolliano Alice nel paese delle meraviglie, qualcosa è cambiato. Non si tratta solamente più di un sogno. All’altezza degli anni Ottanta quella che si dovrebbe chiamare realtà inizia a sgretolarsi, i confini del reale si fanno sempre più labili e incerti. Che sia una risposta all’evoluzione tecnologica della società, alla penetrazione dei media nella quotidianità, della progressiva e vertiginosa virtualizzazione dell’esperienza umana è tutto da dimostrare.

“Un colpo di fortuna” che non possiamo controllare

Allen questa volta al posto di Dostoevskij legge – e rilegge – Simenon, le cui atmosfere ritroviamo anche nel finale del film. Nel suo collaudato schema, che propone temi e dilemmi etici attraverso un racconto leggero, Woody aggiunge una riflessione: la fortuna non solo non la possiamo controllare ma la cerchiamo anche nel posto sbagliato. A volte il biglietto vincente della lotteria non si trova in un negozio ma dentro un bosco.

Speciale “Rifkin’s Festival” – L’arte della variazione

Siamo davanti a un film che scorre via con una levità sorprendente, nel quale Allen si diverte a rimettere in scena i film che più ha amato, trasformandoli in brevissimi e geniali sketch: ma davvero la sfrontata e argutissima ironia con cui decide di farlo incanta, per freschezza, inventiva e spirito dissacratorio.  Il cinema come antidoto alla morte e come inno alla vita, perché se il tema della morte è presente nel suo cinema, più o meno sotto traccia, fin dalle sue origini, la capacità di far convivere levità e dramma, infelicità e amore per la vita, disillusione e fiducia nel futuro è uno dei cardini fondamentali di tutto il cinema di Woody Allen.

Speciale “Rifkin’s Festival” – La fuga tra le forme della passione

Mort Rifkin racchiude la maggior parte delle caratteristiche e dei temi rituali della poetica di Allen, con una declinazione però di maggior senilità. Il suo è un vagare dimesso e disilluso. Il ritorno alla realtà ha un sapore più amaro e malinconico, L’unico sollievo, porto sicuro spirituale, è sempre più lontano dalla realtà, ammantato dalle immagini del cinema che ama e che utilizza per rileggere la propria vita, facendo i conti con sé stesso anche tramite rievocazioni dei film da lui girati. Rifkin’s Festival, cinquantesima regia cinematografica, è sì un film imperfetto, ma rappresenta un’ulteriore e rilevante tappa nel percorso cinematografico di Woody Allen, la cui passione e sagacia risultano invariate.

Venerati maestri del cinema contemporaneo

A chiusura del 2019, approfondiamo il tema dei “venerati autori”. I grandi cineasti della vecchiaia. In fondo è stato comunque l’anno dei maestri, aperto dalla lectio magistralis più anarchica: quella di Clint Eastwood (quasi novant’anni, ma chi ci crede?), il corriere che continua a dirci che non esiste un mondo perfetto. Ciclicamente promette che non tornerà di nuovo in gioco: e quando pensi che sia l’ultima volta, sfoderi la retorica del testamento, ti consoli nel ritrovarlo dietro la macchina da presa… ecco che ritorna. E poi Allen, Avati, Bellocchio, Leigh, Polanski, Scorsese, e altri. 

Il sole, nonostante tutto. “Un giorno di pioggia a New York” – Perché sì

La pioggia è una delle componenti fondanti di tutta la pellicola, tanto da essere evocata fin dal titolo. Gocce che sembrano fatte di filamenti iridescenti che più che bagnare, illuminano i volti dei protagonisti. Amare la pioggia si rivelerà determinante, quasi una scelta di campo, perché non si può davvero vivere con chi non trova romantico camminare sotto la pioggia. Ma non è tutto qui. Per quasi tutto il film infatti, si ha l’impressione che piova col sole.  Per lo meno questa è la curiosa impressione che la straordinaria fotografia anti-naturalistica di Vittorio Storaro riesce a creare. Una pioggia battente e incessante che però è sempre costantemente attraversata, tagliata, puntellata di raggi di luce caldi e avvolgenti. 

L’inaspettata inconsistenza di “Un giorno di pioggia a New York” – Perché no

Posto e accettato che la complessità dei film degli anni ’70 e ’80 di Allen sia un lontano e bellissimo ricordo, ci troviamo ad archiviare a malincuore questo Un giorno di pioggia a New York come un episodio fra i meno interessanti degli ultimi anni del nostro autore. Forse la scelta che più compromette la riuscita del film è quella della voce over a commento, affidata non ad una entità astratta e distante come in Vicky Cristina Barcelona, ma proprio al giovane Gatsby, che per ragioni anagrafiche non può assumere quel ruolo di narratore epigrafico e risolutivo di cui si sente effettivamente la mancanza. Emblematica, in questo senso, la scena della confessione della madre di Gatsby al figlio, a metà strada fra melodramma e commedia demenziale, priva di quella necessaria sintesi di significati e toni di cui l’ultimo Allen è invece maestro.

Il curioso caso di Leonard Zelig

Zelig, come il suo protagonista, è tante cose insieme. Innanzitutto è una divertentissima commedia, con alcune geniali battute fulminanti e con un effetto comico che nasce dal contrasto tra contenuti demenziali e l’estrema serietà formale. Poi è una celebrazione amara di un periodo fervido e vitale che, come l’orchestra del Titanic, festeggiava la vita andando inconsapevolmente incontro alla morte, sulla soglia dell’orrore della Seconda Guerra Mondiale.  F. Scott Fitzgerald e il Tip Tap, l’affermarsi della psicanalisi e Charlie Chaplin, la nascita della società di massa e  Babe Ruth, il nazismo e  Josephine Baker:  lo zenit ed il nadir della civiltà umana racchiuso in pochi anni.

Woody Allen racconta “Io e Annie”

Ricorda Woody Allen: “Quando uscì Io e Annie, in molti ebbero la sensazione che mi fossi venduto o avessi commesso un errore madornale, perché il mio tipo di film era II dittatore dello stato libero di Bananas, o Prendi i soldi e scappa, Amore e guerra, quel tipo di film surreale. Se nel film il pubblico non trova un’accozzaglia di battute anarchiche o demenziali, ci resta male. Lo ricordo molto chiaramente con Io e Annie perché non si trattava soltanto di strane lettere di pazzoidi che ricevevo nella posta, ma anche di gente che conoscevo personalmente. Charlie Joffe mi ripeteva: ‘Gesù, i miei amici si chiedono come mai perdi tempo con certa roba’. Ovviamente, reazioni del genere si sono moltiplicate quando ho cominciato a proporre film seri. Probabilmente per molti è inspiegabile il motivo che mi spinge a cimentarmi con qualcosa di tanto lontano dal cinema che mi ha reso popolare, che non so nemmeno fare bene, e per il quale non ci sarebbe mercato nemmeno se mi riuscisse meglio. Li capisco, ma educatamente rispondo sempre: ‘Immagino che tu abbia ragione’, e continuo per la mia strada”.

“Io e Annie” e la rapsodia di una musica essenziale

Su Io e Annie, vincitore di quattro Premi Oscar e acclamato dalla critica, dal 1977 in avanti è stato scritto di tutto, ma non abbastanza per quel che concerne l’aspetto musicale; attributo della filmografia di Allen mai sviscerato appieno. Film di passaggio, sperimentale (per certi versi, anche dal punto di vista musicale), Io e Annie presenta delle caratteristiche proprie in cui è possibile riconoscere l’inizio di quel personalissimo percorso tutto alleniano che prevede l’utilizzo di musica preesistente. Dopo la sua dirompente esplosione sul grande schermo con i “primi film, quelli comici” – per citare Stardust Memories, il regista fa in modo che il Dixieland lasci spazio a una rapsodia in cui si intrecciano movimenti che richiamano la musica classica ma anche musica popolare, quest’ultima connotata della doppia natura di standard jazz.

Il bambino e l’ipocondriaco, il Woody Allen di “La ruota delle meraviglie”

Vocabolario di Woody Allen: il jazz e il vaudeville, la pura meraviglia del cinema, i primi amori, le locandine ingiallite, la madreperla dei lungomare. Il bambino che fu prende di prepotenza il sopravvento sul New Yorker ipocondriaco e sogna nella sala buia. Film fra i suoi più magici e sentiti, sfociano puntualmente nei risvegli più dolorosi. È così per pietre miliari come Radio Days e La rosa purpurea del Cairo. È così (nei due secondi di un occhiolino allo spettatore) per il sottovalutato La Maledizione dello scorpione di giada. È così anche per La ruota delle meraviglie.

Cinema Ritrovato 2017: “Io e Annie”

Per quell’edonista infelice che è Woody Allen perdersi nel meraviglioso mondo delle idee era quasi sempre un’occasione per estraniarsi da una realtà di per sé divisa tra “l’orribile e il miserrimo”, dove la sua perpetua ricerca di piacere non avrebbe mai trovato piena realizzazione. Nello stesso tempo è chiaro quanto il suo desiderio sia infinito e impraticabile, animato da un assiduo stato di mancanza e destinato a dissolversi nel nulla se confrontato con l’esperienza.

Panchine, edifici e ponti: analisi oggettuale di “Manhattan”

La Manhattan di Woody Allen è avvolta da un alone misterioso e sinistro emanato dai suoi edifici, “high growths of iron, slender, strong, light, splendidly uprising toward clear skies”, queste sono le parole usate da Walt Whitman in Mannahatta, versi che ne cantano la potenza e la bellezza.

Rapsodia in bianco e nero: la musica sinuosa di “Manhattan”

Se, come il protagonista in una delle scene più famose del film, ci si mettesse sdraiati sul divano ad elencare le cose per cui vale la pena vivere, Manhattan potrebbe legittimamente rientrare, come tutto il grandissimo cinema, nella lista.

Détour intorno a “Manhattan”

Continuano, e si allargano a tutte le sale italiane, le proiezioni di Manhattan restaurato. Il capolavoro di Woody Allen non solo riguadagna il grande schermo dove le luci di Gordon Willis e le note di George Gershwin possono esaltarsi al meglio, ma ci riporta anche le tante cose scritte sul film da studiosi e critici.

“Manhattan” secondo la critica

La nuova versione digitale in 4K realizzata a partire dal negativo camera originale promette di riportarci Manhattan, oltre che su grande schermo, anche nello splendore originale del suo malinconico inno a New York. Proponiamo qui un’antologia critica del capolavoro di Woody Allen.

“Café Society”, questione di standard

Il film di Woody Allen continua a far discutere gli appassionati, come sempre divisi tra chi lo giudica prevedibile e coloro che lo trovano irresistibile. Cinefilia Ritrovata ci torna su, proponendo questa volta una riflessione sulle musiche e la loro funzione.

Un doppio sguardo su “Café Society”

Questo mese è in sala Scorsese al Cinema Lumière fino a mercoledì 12 ottobre, in lingua originale sottotitolata, Café Society, l’ultimo film di Woody Allen, una romanzesca e agrodolce storia d’amore e un ritratto scintillante e caleidoscopico dell’America anni Trenta. Due collaboratori di Cinefilia Ritrovata sono andati a vederlo. A seguire, le loro considerazioni.