Abbiamo aspettato un po', per non buttarci nella mischia prematuramente e lasciare depositare un po' i conflitti abbastanza malinconici seguiti alla scomparsa di Carlo Vanzina. Chi segue questa testata sa che non siamo soliti seguire particolarmente il cinema popolare, ma al tempo stesso non pensiamo alberghi alcun conservatorismo nella nostra linea editoriale. Abbiamo deciso di intervenire su Vanzina non per esprimere una particolare posizione del direttore o della redazione, bensì a seguito di alcuni interventi davvero illuminanti e riusciti comparsi in queste settimane. Interventi e articoli che ci permettono di spiegare un po' di cose su Vanzina, la cultura nazionale e l'identità del nostro cinema. Quel punto interrogativo del titolo rimarrà fino alla fine. Ma avremo letto alcune cose davvero interessanti.

 

Cominciamo da Giacomo Manzoli, un estratto dal suo articolo comparso su "Fata Morgana Web": 

L’immaginazione vanziniana doveva estrinsecarsi in tre film proverbiali, legati ad altrettanti fenomeni che avrebbero dimostrato la svolta antropologica e politica del Paese. Parliamo di Sotto il vestito niente (1985), un giallo pretestuoso che serve a raccontare che la moda non era solo la moda, ma una chiave di lettura della realtà che si avviava ad essere la seconda industria nazionale sullo scenario globale. Ancora, Yuppies, giovani di successo (1986), dove viene fornita una serie di ritratti di “nuovi mostri” della Milano da bere che ha poco da invidiare ai vitelloni felliniani degli anni cinquanta o alle figure che Risi aveva tratteggiato nelle sue caricature degli anni sessanta. Infine, I miei primi quarant’anni (1987), sull’autobiografia di Marina Ripa di Meana, dove si narra il cortocircuito del femminismo, tra imprevedibili modelli di emancipazione edonistica e un diverso rapporto con l’avanzare del tempo.

Benché la loro carriera continui per altri trent’anni, con il mutato clima sociale e politico dettato da tangentopoli prima e dalla discesa in campo di Berlusconi, è come se i Vanzina avessero perso la loro proverbiale leggerezza e una nota plumbea permeasse il loro universo narrativo. Un piccolo-grande film di commiato, Sognando la California (1992), con momenti di comicità magistrale (Nino Frassica che fa l’imitazione di Volonté) che fanno da contrappunto a un viaggio fra le radici delle proprie mitologie personali, e poi il ripiegamento in una infinità di titoli da robivecchi, nei quali il repertorio della commedia all’italiana con un tocco alla Vanzina viene costantemente riproposto in forme modulari. Un modello produttivo e realizzativo artigianale, che consente loro di sopravvivere discretamente nella propria comfort zone, mantenendo però il cinema in primo piano, senza mai davvero tradirlo in favore della serialità televisiva.

La verità è che, come testimoniano i tanti tentativi di frequentare generi diversi (in particolare il giallo o la commedia romantica), i Vanzina sono soprattutto stati degli irrequieti anarchici, desiderosi di graffiare il moralismo e le convenzioni consolidate, con un fondo di malinconico romanticismo. Due amabili e intelligentissimi cialtroni, che amavano travestirsi da cinici, ma la cui eredità si segnalerà soprattutto per la voglia gioiosa di fare cinema e un ingenuo stupore per il piacere di vivere. Il lato solare degli anni ottanta, la parte buona del postmoderno all’italiana.

 

 

Poi Paolo Noto sul blog del Mulino:

Il cinema di Carlo Vanzina è totalmente irrecuperabile in chiave cinefila. Anzi, tanto più rispecchia un mondo, tanto meno può essere amato da chi nel cinema cerca lo sguardo capace di costruire o deformare la realtà, e non di riprodurla mimeticamente: la cinefilia italiana, nelle sue versioni più oltranziste, può rivalutare, stando al comico, Nando Cicero o Mariano Laurenti, i decamerotici con Edwige Fenech e le liceali di Gloria Guida, lo spreco immotivato di grandangoli e di piani sequenza, ma non gli orgogliosamente piatti Vanzina. I film dei Vanzina non conoscono le miserie del cinema popolare italiano, ma nemmeno le imprevedibili accensioni stilistiche che talvolta da quelle miserie si rivelano. Non sfruttano intensivamente i filoni, ma sono fedeli al macrogenere fondamentale del nostro cinema popolare: la commedia di costume, nella variante che privilegia la definizione dei caratteri alla costruzione dell’intreccio (il padre Steno, appunto, e non Monicelli), l’assemblaggio di attrazioni precostituite quali gag, canzoni o tormentoni di arte varia all’integrazione di personaggi a tutto tondo in racconti più o meno organici (gli anni Cinquanta di Vacanze a Ischia e non i Sessanta di Io la conoscevo bene). Nei grandi successi diretti da Carlo Vanzina non si trova l’eccesso stilistico del cinema di genere italiano degli anni Settanta o dei primi Ottanta: non ci sono gli zoom a schiaffo del poliziesco, le incoerenze narrative del thriller, le esibizioni gratuite di numeri ed effetti del western o dell’horror. C’è invece, quasi sempre, grande pulizia stilistica: inquadrature chiare, recitazione funzionale, ricorso sistematico a elementi in grado di suggerire ambiente e situazione, dalla musica alle battute.

E il trash, quindi, qualunque cosa ciò voglia dire? Falso problema: i film di Carlo ed Enrico Vanzina, soprattutto i grandi successi della metà dei Novanta, da S.P.Q.R. 2000 e 1/2 anni fa(1994) a A spasso nel tempo (1996), sono spesso affollati di gag truci, coprolalia, sessismo, omofobia, ma non è questo il loro aspetto qualificante, soprattutto se li si mette a confronto con altri film simili e contemporanei o immediatamente successivi. I Vanzina hanno codificato modelli – il film vacanziero su tutti – che altri cineasti hanno poi declinato accentuandone i caratteri più espliciti e ricavandone un successo superiore agli originali. La stagione d’oro del cinepanettone coincide per esempio con i film diretti da Neri Parenti e prodotti dalla Filmauro ed è di parecchio successiva all’originario Vacanze di Natale. Detto ancora più apertamente: altri hanno avuto soldi e successo da film per cui i Vanzina sono stati additati a responsabili dello sfascio cinematografico nazionale.

Che cosa ci dice allora, oggi, il cinema di Carlo Vanzina? Per esempio ci indica che tutti, amici e nemici, cinefili e non, facciamo una gran fatica a fare i conti con questa forma orgogliosamente media di spettacolo: fatta pensando al pubblico e non ai connoisseurs, semplice nella costruzione del racconto, professionale nella realizzazione, abile nella creazione di cast corali che mescolano attori navigati ed esordienti o presenze eccentriche, asciutta dal punto di vista espressivo fino a sembrare sciatta. Se ci fosse lo spazio per articolare delle provocazioni si potrebbe aggiungere: semplice e sciatta come quella dell’altro regista chiave degli anni Ottanta e Novanta in questo Paese, Nanni Moretti.

I lavori per la televisione, dalla miniserie Anni ‘50 (1998) alle quattro stagioni di Un ciclone in famiglia (2005-2008), rappresentano da questo punto di vista non una parentesi, ma un prolungamento di quel modello, costantemente ricercato e sempre più difficile da replicare. Le figure di una stagione, come dimostra il celebre, splendido finale di Sapore di mare, possono ripresentarsi con gli stessi abiti e negli stessi luoghi, ma difficilmente riusciranno a ristabilire, se non la magia, almeno l’efficacia del primo incontro.

 

 

Roberto Silvestri sul suo blog:

 

Da Antonio Pietrangeli e da Billy Wilder, i figli di Steno avevano rubato il primo segreto fondamentale della commedia moderna. I personaggi femminili non sono lo sfondo insignificante, ma la sostanza stessa della comicità seria, quella che non si compiace della propria volgarità, anzi la bacchetta. E fin dentro il dettaglio più microscopico. Pochi cineasti della loro generazione e di quella immediatamente precedente, se ne accorsero. Alberto Grifi e Nanni Moretti, per esempio, fini umoristi. Infatti il nostro cinema politico, quello più indignato, nel senso di "occhi rossi sul pianeta Italia", che ci ha restituito la scultura interiore di un popolo, è proprio concentrato qui, in questo triangolo delle Bermude dell'immaginario incandescente. Nelle increspature del racconto "incivile", oltranzista, di cattivo gusto, tra controcultura, satira hard e satira soft, piuttosto che nel cinema civile di Rosi, Petri e Damiani. Che poi Moretti riempisse di sacerdoti i film e Grifi no, non conta. Puntavano a mercati differenti. Ci sono utilitarie e fuori serie. Artisti che vanno astagioni e artisti che pensano ai secoli venturi.

Carlo si occupava del raccordo tra grande cinema classico hollyoodiano (e Lubitsch e Wilder in particolare) e bellezze esotiche. Enrico di  impreziosire il tutto di sport e politica (è un giornalista del Messaggero, da quasi trent'anni, oltre che romanziere di grande successo). Il binomio era perfetto. Speriamo che continui, tanto la sintonia era automatica. Anzi i loro 60 film e più sono diventati il terreno di saccheggio del cinema d'autore. Anche se pochi riusciranno a rubarne il segreto ritmico, fatto di contaminazioni magiche tra calcio, divismo, frammenti di new Hollywood, cronaca rosa e nera, twitter dei poltiici ante litteram, e jingle pubblicità. Hanno davvero gettato alle ortiche il vecchio immaginario del ventennio Dc. Matteo Garrone citerà perfino, consorprendente afflato buonista  Un matrimonio da favola in Dogman (nella sequenza del piccolo cane schiacciato dal cleptomane distratto Max Tortora). E Sorrentino quando pensa al film su Berlusconi fa più la parodia delle loro satire, che del "vero" ex Cavaliere decaduto. Soprattutto dopo la battuta gridata dopo la festa romana antica super squallor di Non si ruba in casa dei ladri: "Ah Maronaro, a te la Grande Bellezza  ti fa una pippa!".

 

 

Infine Marco Giusti sul "cinema dei giusti":

 

Non c'è un film di Carlo Vanzina, anche dei meno riusciti, che non possieda questa solidità narrativa e, al tempo stesso, che non apra a qualche comico inedito, a qualche faccia nuova, a qualche gag non ripetitiva. Ovvio che la grande stagione di Carlo sia quella legata agli anni 80, ma anche negli ultimi film troviamo idee originali e zampate divertenti. Elegante, divertente, sempre gentile e disponibile, Carlo Vanzina ha percorso il nostro cinema, che non brillava certo sempre per eleganza e signorilità, con uno sguardo ironico, allegro, consapevole dei vizi, dei difetti e  delle qualità di chi aveva attorno. Come se avesse saputo fin dall'inizio come sarebbero andate le cose e cosa avrebbe potuto produrre, nel bene e nel male, il nostro cinema. Altro che grande bellezza. Carlo aveva una ironia e una consapevolezza tutte romane, come è stato dipinto nel bellissimo romanzo del fratello Enrico che racconta tutto un mondo che va svanendo. Se ne va con la grazia che lo ha sempre distinto in un momento che sarebbe stato ottimo per un suo nuovo film. È ci dispiace davvero di non poterlo vedere.