Nelle spedizioni postali il Regno Unito si può considerare un vero pioniere. I sudditi di Sua Maestà, infatti, sono stati i primi a utilizzare i francobolli: era il 1840 e la riforma voluta da Rowland Hill introdusse i fantomatici Penny Black, quadratini di carta gommata con l’effigie della regnante Regina Vittoria. Leggenda vuole che ci fosse un po’ di resistenza a usarli, visto che, per incollarli, bisognava leccare il retro della sovrana.

Nella sessuofobica Inghilterra vittoriana sembrava una cosa poco decorosa. Proprio il fantomatico concetto di “decoro” è una degli elementi chiave di Cattiverie a domicilio di Thea Sharrock. Il film è ispirato all’incredibile storia vera accaduta a Littlehampton, cittadina costiera del sud dell’Inghilterra, che nel 1922 venne scossa da una valanga di lettere anonime taglienti e fantasiosamente scurrili.

Nel, fino ad allora, pacifico villaggio, l’esempio massimo del decoro di cui sopra, qualità squisitamente femminile, è incarnato dalla devota Edith Swan (Olivia Colman) che conduce una vita pia e morigerata, frequentando le attività della parrocchia e prendendosi cura della madre (Gemma Jones) e di un dittatoriale padre-padrone (Timothy Spall).  Al lato opposto della barricata c’è invece l’indecorosa Rose Gooding (Jessie Buckley), irlandese da poco arrivata in città con una figlia a carico e un marito opportunamente scomparso tra le trincee della Grande Guerra.

Tanto la prima risponde per filo e per segno alle regole di composta dignità che l’Inghilterra di re Giorgio ancora impone alle brave signorine, tanto l’altra è sboccata, noncurante delle convenzioni, libera nei comportamenti e nelle amicizie. Sono vicine di casa, ed è scontato che quando Edith diventa il principale bersaglio delle lettere ingiuriose, Rose sia la prima sospettata e la responsabile ideale. Gli ottusi poliziotti locali non hanno dubbi: peccato che l’agente Gladys Moss (Anjana Vasan), l’unico membro femminile del corpo di polizia, abbia più di qualche perplessità sulla reale colpevolezza della ragazza.

Romanzo giallo (vedi anche alla voce Il terrore vien per posta di Agatha Christie), commedia irriverente e dramma storico di critica sociale (con un occhio alla contemporaneità), il film si muove tra queste diverse istanze indovinando una ricostruzione d’epoca che sa di bozzetto dickensiano. Dal grande romanziere prende a prestito anche il gusto per i ben caratterizzati personaggi di contorno, che aiutano a comporre questo disarmante quadretto della provincia inglese tra le due guerre, intrisa di gretto maschilismo e sciocchi pregiudizi sessisti.

Si distingue in particolare un gruppo di più o meno attempate signore (capitanate dalla mitica dame Eileen Atkins) pronte ad andare in soccorso dell’ingiustamente accusata Rose. Sono postine, contadine, vedove non troppo affrante; rappresentano lo zoccolo duro della libertà conquistata dalle donne durante la Prima guerra mondiale, quando l’indisponibilità degli uomini, tutti occupati al fronte, aveva permesso per la prima volta al “gentil sesso” una possibilità di movimento e di occupazione impensabile per le loro parenti vittoriane e edoardiane. Quel drammatico frangente aveva reso evidente che le donne potevano fare da sole, senza nessun cavaliere a difenderne l’onore, senza nessuno che dicesse loro cosa fare, dire e pensare.

Su questo scontro di sessi e nei sessi, alle prese con un cambiamento epocale, inarrestabile, ostacolato e ostracizzato, si costruisce Cattiverie a domicilio. Se il film non ha l’equilibrio di una commedia Ealing, indeciso com’è se spingere sul pedale grottesco delle gustose volgarità epistolari o se farsi dramma a tutti gli effetti, a fare la differenza è un gruppo di interpreti strepitosi, che danno ai personaggi quello spessore, quella complessità, quelle sfumature che a volte nella sceneggiatura di Jonny Sweet sembrano solo accennati.

In particolare Olivia Colman e Jessie Buckley si esibiscono in un capolavoro di arte recitativa, mettendo in campo due femminilità diverse e complementari: la prima stretta e soffocata, l’altra giudicata e condannata dall’ideale insidioso e irraggiungibile dell’angelo del focolare. Sono due vittime opposte del ruolo imposto alle donne da un mondo di uomini spaventati da qualsiasi libertà femminile (aleggia il fantasma della rivendicazione del diritto al voto, che nel Regno Unito, pur governato da grandi regine fin dal Cinquecento, arriverà dopo lunga lotta delle suffragette solo nel 1928).

Sono donne che non vogliono più rispettare quella prescrizione al decoro richiesta da padri e mariti impegnati a difendere un potere esercitato per troppo tempo e che ora sentono malfermo. Una prescrizione che lo sfrenato linguaggio osceno delle lettere del “corvo” e una liberatoria risata finale (non diciamo di chi) sembrano scacciare via definitivamente.