Se il cinema di Costa può lasciare perplessi e persino un po’ intimiditi per il rigore quasi ascetico della messa in scena, la rarefazione dei tempi e lo scardinamento della narrazione tradizionale, proprio la visione dei suoi lavori precedenti può aiutare a penetrarne la complessità e la ricchezza: Cavalo Dinheiro, infatti, si pone idealmente a conclusione della “trilogia capoverdiana” di Costa, avviata con Ossos (1997) e poi proseguita con Juventude em marcha (2006). Il film esplora infatti la realtà degli immigrati capoverdiani a Lisbona, e la loro difficile condizione di vita nel quartiere malfamato di Fontainhas.

Come in Juventude em marcha, il viaggio di Costa in questa realtà di miseria e sofferenza passa attraverso gli occhi di Ventura, un uomo ormai anziano che porta sul corpo come nella mente i segni di una vita dolorosa e marginalizzata: il film si colloca infatti in un tempo e uno spazio astratti, sospesi e dilatati, che corrispondono a quelli mentali dell’immigrato.

Sfiancato da anni di lavoro incessante e perseguitato dalle proprie nevrosi, Ventura rievoca la propria vicenda mescolando eventi presenti e passati, reali e immaginari, il cui carattere fantasmatico viene enfatizzato da una fotografia contrastata, anti-naturalistica e a tratti quasi allucinata. Più che indugiare sulla povertà materiale degli abitanti di Fontainhas, Costa decide di raccontarne la marginalizzazione attraverso il trattamento spersonalizzante loro riservato dall’autorità: l’odissea di Ventura si consuma infatti nell’incessante susseguirsi di interrogatori e pratiche burocratiche, mentre la sua intera esistenza sembra essere ridotta ad un certificato di nascita, un visto, un passaporto.

Visivamente inchiodato alle pareti di uffici, ospedali e prigioni, Ventura è continuamente circondato da medici e funzionari di cui non ci è dato di vedere il volto, mentre l’autorità militare – rievocata nel ricordo ossessivo della Rivoluzione dei Garofani del ’74 – costituisce lo spettro più assillante e spaventoso. Con Cavalo Dinheiro, Costa riesce nell’arduo compito di trattare il disagio degli immigrati capoverdiani con compassione e umanità, e mostra con efficacia come il malessere sociale possa penetrare a tal punto da trasformarsi in sofferenza psicologica.

Stilisticamente rigoroso e visivamente potente, Cavalo Dinheiro riesce a farci percepire con pochi semplici tratti la violenza simbolica di cui Venura è vittima, facendo della povertà dei mezzi espressivi un punto di forza e una precisa dichiarazione di poetica. Il cinema di Costa, che sembra sempre più oscillare tra l’onirico e il documentario, tra il lirismo e la ricerca etnografica, si fa così portatore di una riflessione politica ben precisa, in cui il ripensamento dei traumi coloniali del Portogallo e la delusione per la rivoluzione “fallita” del ‘74 si impongono come una necessità cogente.