Tratto da Maigret e la giovane morta, Maigret di Patrice Leconte si distacca ampiamente dal quarantacinquesimo romanzo di George Simenon dedicato al celebre commissario parigino, mantenendone solo i personaggi principali e l’incipit, ovvero il ritrovamento del cadavere di una ragazza di vent’anni su cui l’agente sarà chiamato a indagare.

Di adattamenti più o meno fedeli per grande e piccolo schermo di romanzi dei noti investigatori della letteratura mondiale (Sherlock Holmes, Poirot, Miss Marple o lo stesso Maigret) è piena la storia dell’audiovisivo. È chiaro allora che una nuova simile operazione debba differenziarsi dalle precedenti sul piano narrativo o su quello della resa formale, senza auspicabilmente tradire il soggetto di partenza. Maigret è in costante bilico, fedele com’è all’essenza del soggetto ma così distante da tralasciarne buona parte dei tratti peculiari e caratteristici.

Il protagonista reso celebre da Albert Préjan, Jean Gabin, Rupert Davies, Gino Cervi, Jean Richard, Bruno Cremer e Rowan Atkinson nelle mani di Leconte e nel corpo di Gérard Depardieu perde quei tratti bonari ma spicci in favore di un più inedito carattere contorto e introverso, a tratti dolente, morso da una vecchiaia imminente e una depressione che lo rendono più sensibile al torbido ambiente in cui è trascinato. Così la fragilità dell’uomo, che contrasta con la sua possente mole, accentua ulteriormente – rispetto agli adattamenti precedenti – la forte empatia verso i personaggi più fragili portandolo a provare per loro una compassione che è l’essenza stessa della sua umanità. Egli “non giudica mai” né le vittime né i colpevoli pur quando oltrepassano i suoi principi morali, convinto com’è che l’uomo sia un essere contraddittorio al cui interno Bene e Male combattono una lotta costante e non sempre alla pari.

Lo spleen baudelairiano che caratterizza questo Maigret si riflette nel proscenio del film, nella luce livida che a stento illumina cose e persone spesso isolate, come in un dipinto del realismo americano più che nei ritratti sordidi ma vitali della vita francese tipica di Simenon. Ed è questa la scelta più azzardata e straniante attuata da Leconte. Eliminare quasi interamente la descrizione della Francia del dopoguerra, fatta di bistrot affollati, tavole calde, uffici, vita in strada e la realtà proletaria o piccolo borghese che sono il vero soggetto di questi romanzi – in cui l’indagine è un pretesto per raccontare il cambiamento sociale e culturale di un Paese in evoluzione – viene quasi a snaturare il soggetto stesso da cui il regista attinge.

In pratica Leconte parte da Maigret per rileggerlo, riscriverlo, reinterpretarlo allontanandosi dall’adattamento fedele e forse fuori tempo commerciale per darne una sua personale versione che esula dal personaggio stesso e dal suo contesto a partire dal titolo, che rimanda più all’idea del noto personaggio che al romanzo in oggetto. Come lo Sherlock Holmes di Guy Ritchie, Maigret è altro: riprende la figura principale ma lo rielabora liberamente in un efficace racconto di genere che rimanda all’universo specifico di riferimento pur non venendone a farsi parte integrante. Ecco che la frase “questa non è una pipa”, pronunciata dal protagonista rifacendosi al surreale umorismo del noto dipinto omonimo di René Magritte, racchiude la sostanza dell’operazione di Leconte. Il suo Maigret non è Maigret, è una rappresentazione e come tale non reale: in definitiva una riuscita pur se evidente imitazione.