Cécile Decugis è nota come montatrice della nouvelle vague (Truffaut, Rohmer, Godard), un mestiere storicamente svolto dalle donne perché più abili nel lavoro di taglia e cuci, che era proprio del montaggio in pellicola di un tempo. Ma non possiamo esaurire la sua figura con una sola definizione: Cécile era anche una regista, una docente rivoluzionaria alla Femis e un’attivista politica (viene arrestata perché aveva affittato a suo nome un appartamento per il dirigente della FLN). La rivoluzione la accompagna nella vita e nella professione, mai totalmente separabili. La sua produzione da regista si muove su due fronti: quello della finzione e quello del cinema del reale.

Tramite le immagini la conosciamo lentamente: vediamo una lacerazione, una sofferenza che, con l’ultimo film, ci viene chiarita. René ou le roman de mon père è un urlo secco, un respiro mozzato, quello di chi è morto ma che ancora vive. Vive nelle fotografie, suo padre, e lei intraprende con lui una discussione distante e severa: non percepiamo amore, ma solo un giudizio di chi è già avanti con gli anni e guarda al passato. Cerca di riconoscere suo padre dallo sguardo, dalle pose che assume nelle fotografie e leggiamo una certa ironia, un’alta considerazione di sé, ma anche malinconia. Non ci sono sentimenti, solo numeri, atti e contratti per il matrimonio di René, suo padre, e Paule, sua madre e per la nascita dei due bambini, Cécile e Michel Jean Jacque. Aspramente veniamo a conoscenza della malattia di René e della sua morte. Il racconto continua, con indifferenza e freddezza: rimane la neve “pura, semplice ma dura”, come suo padre. La stessa neve in cui, alla fine del film, Paule si rifugia.

Il rapporto con l’altro sesso è sempre complesso per le protagoniste dei suoi film. Leggiamo un’incapacità di andare oltre, di portare avanti un’azione destinata a morire prima di nascere. Sono protagoniste le donne, forti ma deboli, affascinate da uomini che ripetutamente preferiscono mantenere una certa distanza dai sentimenti: -“Amare, cosa significa amare?" -"Ho orrore dei sentimenti, ne ho fin troppi”. Tra storie di amore e indifferenza percepiamo la guerra, sempre come nebbia leggera e quasi impercettibile: è nei giochi dei bambini, è nelle battute scambiate per caso. -“Non mi interessa la guerra, e poi è passato”. -“Il passato? È eterno”.

La guerra è invece nelle strade e nelle situazioni che racconta con la sua Super8 nei documentari e nelle vedute di Parigi. Una città che rimane sospesa, che mai ci è concesso vedere con chiarezza. Ne riconosciamo l’acqua, il verde, la neve e i passanti, sempre di spalle. Cécile rimane sulla riva del fiume che scorre davanti a lei, il fiume della realtà, con il suo sguardo distante e silenzioso.

Questo accade in Renault-seguin la fin, un documentario sullo smantellamento della fabbrica della Renault, un’isola-monumento del sindacalismo, degli scioperi del ’68, di un modo diverso di concepire il lavoro. La telecamera ci fa percepire lo scorrere del tempo e diventa l’occhio di un passante che per quasi un anno osserva il cemento e i demolitori.

Lo sguardo della Decugis non è solo quello di regista, ma anche di teorica del cinema. Perfettamente consapevole del mezzo cinematografico, in Le réfugiés, si interroga sull’eticità delle immagini. Cosa è vero? Cosa è falso? Quale messaggio trasmettono le immagini? Un film girato nel 1965 sulla Linea Morice (linea elettrificata costruita lungo la frontiera algero-tunisina) ritorna in vita grazie alla voce della stessa regista che fa parlare la pellicola a quasi più di 50 anni di distanza.

Un bambino è solo nel deserto, spostando lo sguardo scopriamo che vicino a lui c’è la famiglia. Delle capanne sembrano costruite al centro del nulla: come fanno a sopravvivere senza acqua? Allargando l’inquadratura notiamo che è vicino ai rifornimenti. La riflessione sull’uso delle immagini è un discorso più attuale che mai e, consapevolmente o meno, si accresce ad ogni accensione di televisione. Cécile Decugis ci insegna che ogni sguardo è soggettivo e che dobbiamo stare in guardia per non cadere in un’ingiustificata commozione.

-"Per me non è cinema". -"E quei filmini della fabbrica della Renault? Sembravano girati da mia nonna". -"Ma poi il film era anche fatto male, le sequenze duravano troppo". Le mie parole le dedico a voi, cinefili polemici appena fuori la sala.