“Bisognerebbe ricordare che il fenomeno cinema presenta un interesse che va oltre il fatto particolare dell’essere o non essere, caso per caso, il film un’opera d’arte: e cioè un interesse sociale, morale e politico. […] Bisognerebbe studiare l’influenza del cinema sulla folla, la forza di penetrazione dei suoi contenuti di segno vivo – più superficiale o più penetrante – che certi film lasciano nell’animo del pubblico, osservare le correnti di idee che essi incanalano in certi paesi, la trasformazione che operano nei caratteri e nelle abitudini. Ecco il compito del vero critico cinematografico”.
A scrivere, nel marzo 1945, è un critico di ventisei anni sulle pagine della rivista “Star”, fondata da Ercole Patti. Tra la guerra e l’immediato dopoguerra, il giovane firmava articoli anche per “Bianco e nero” e “Cinema”, recensendo i film usciti a Roma con una spiccata attenzione ai fermenti neorealisti. Senza perdere le occasioni, all’indomani della caduta del regime, per riflettere sul ruolo della critica, dimostrando peraltro un non banale interesse verso gli studi sulla ricezione. Quel critico si chiamava Antonio Pietrangeli, nato il 19 gennaio di cento anni fa.
Benché parallele nei primi tempi – laureato in medicina come Dino Risi, era stato anche aiuto regista, sceneggiatore, segretario di edizione per Alessandro Blasetti, Roberto Rossellini, Alberto Lattuada, Pietro Germi, Gianni Franciolini – l’attività di scrittura sul cinema sembra essere preliminare all’attività nel cinema. Non fu il solo della sua generazione a passare dalla critica al set (Michelangelo Antonioni, Carlo Lizzani, Gianni Puccini) e sarebbe interessante un confronto con l’esperienza degli incendiari critici dei “Cahiers” diventati poi registi. Peraltro, come osservato da Alberto Pezzotta, il militante Pietrangeli (primo presidente della Federazione Italiana Circoli del Cinema) è forse il regista italiano che meglio di tutti aveva nello sguardo una sensibilità per certi versi affine alla Nouvelle Vague.
Il suo è un cinema di frontiera che sfugge alle semplificazioni, tra il tramonto del neorealismo e il forzato incasellamento nella commedia all’italiana, con personaggi che sono essi stessi racconti, capaci di testimoniare una realtà che prende vita nel suo divenire. E al contempo edificato su sceneggiature di ferro, esplorando luoghi insoliti dove misurare il disagio interiore all’altezza del miracolo economico (e se si resta nel centro storico non si può che parlare con i fantasmi…). Non ci sono né eroi né antieroi, la comprensione umana per le azioni non sfocia mai nell’indulgenza, il compiacimento non è nemmeno sfiorato.
Sulla tesi secondo cui Pietrangeli sia stato il regista delle donne c’è poco da dire: è vera. Tutti i maestri italiani hanno realizzato memorabili quanto occasionali ritratti femminili (Bellissima, Le amiche, Le notti di Cabiria, La ciociara…), ma è difficile trovarne tanti come nella piccola e smisurata opera di Pietrangeli. Donne colte nel loro faticoso percorso di emancipazione, chiamate ad adeguarsi ai cambiamenti socioeconomici. Un catalogo (quasi) circolare: il suicidio mancato dell’ingenua servetta Celestina con il sole negli occhi e il vuoto in cui sceglie di precipitare la povera Adriana che nessuno conosceva bene. In mezzo: la viziata Francesca nata di marzo, le tre turiste di Souvenir d’Italie, Adua e le compagne e una nuova vita fuori dal bordello, la furba parmigiana Dora, la Pina che aspetta la visita, la borghesissima fata Marta (appendice euforica dopo l’epilogo di Adriana).
Capolavoro ancora sconvolgente che continua a crescere col tempo, Io la conoscevo bene è arrivato secondo nel recente sondaggio sui più grandi film italiani indetto da “FilmTv”, un gradino sotto La dolce vita e uno sopra Il sorpasso. Appena un decennio fa sarebbe stato inconcepibile. Non solo si restituisce a Pietrangeli un onore che non gli fu concesso in vita, ma viene offerta anche la possibilità di rileggere la storia del cinema italiano attraverso una linea fatta di autori generalmente considerati (a torto) medi, da Lattuada e Renato Castellani a Valerio Zurlini e Mauro Bolognini passando per Luigi Zampa, Luciano Emmer, Franco Rossi.
Di Pietrangeli, dunque, si dice anche che sia (stato) sottovalutato, forse il più sottovalutato. Un’invisibile presenza, per citare il titolo di una monografia dedicatagli. Tuttavia, in fondo, questo status gli permette cicliche e necessarie riscoperte. Sul magnifico e struggente La visita si sta compiendo da anni una doverosa operazione di ricognizione. Dovremmo riaffrontare il clamoroso La parmigiana, altra faccia del boom con una ragazza spregiudicata sempre pronta a reinventarsi. E Fantasmi a Roma, folle favola romana sotto l’egida di Ennio Flaiano. E Adua e le compagne, rovescio di Arrangiatevi! in cui come mai si sente l’aria del tempo. E il dolceamaro Nata di marzo, spigliato woman’s film versante milanese.
E non si può nemmeno tacere su quei film che il giovane critico Pietrangeli, sempre su “Star”, definiva apparentemente “sciocchi e privi di qualunque interesse artistico” e proprio per questo capaci di caricarsi “di significati caratteristici di una mentalità, di un gusto collettivo, di una civiltà insomma”, sebbene messi su “da un produttore in modo da corrispondere ad esigenze popolari” o nati “sotto l’influenza di una richiesta politica”. Chi ipotizza che la scarsa attenzione critica sia legata ai compromessi “commerciali” accettati dall’ex collega passato all’altra sponda allude soprattutto alle pigre accoglienze concesse a Souvenir d’Italie e in una certa misura a Lo scapolo fino a Il magnifico cornuto e l’episodio de Le fate.
Anche qui: provate a trovare un altro film turistico consapevole della propria natura commerciale e parimenti onesto con il pubblico; o un altro Sordi-movie del periodo così acuminato e preciso e per di più attento all’universo femminile non solo al servizio del divo; o una ricca pochade così lucida e disinibita, lontano da Roma come Signore & signori dell’altrettanto rimosso Germi; e si provi, infine, a ragionare sul film ad episodi con l’attenzione che merita un filone così cruciale per il cinema di quella stagione.
Insomma, c’è ancora un mondo da riscoprire, con tante finestre socchiuse da spalancare, mille tracce da seguire. Curiosamente è la seconda occasione per ripensare Pietrangeli in pochi mesi (dopo il cinquantenario della morte, avvenuta tragicamente il 12 luglio 1968 sul set di Come, quando, perché, concluso dall’amico Zurlini): un atto dovuto ad uno degli autori più straordinari del cinema non solo italiano, un gigante che non si finisce mai di conoscere.