Nel 2012, Daniele Incalcaterra raccontò in El Impenetrabile le vicende scaturite dalla scoperta di aver ereditato dal padre cinquemila ettari di foresta vergine in Paraguay, la più grande del Sudamerica dopo l’Amazzonia. Grazie ad un decreto dell’allora presidente Fernando Lugo, il regista sperava di rendere quel terreno una riserva naturale, l’Arcadia, convinto di dover restituire la terra ai nativi guaranì. Oggi, sempre in tandem con la moglie Fausta Quattrini, in Chaco – premiato all’ultimo Festival dei Popoli di Firenze – riprende il filo di una storia che ha subito le conseguenze politiche della controversa caduta di Lugo, probabilmente destituito perché intenzionato a promuovere alcune riforme come quella della proprietà terriera.
A partire dalla rivelazione che il terreno ereditato era stato venduto anche ad un’altra persona, Incalcaterra – che nel frattempo ha partecipato allo straordinario A fabrica de nada, straniante saggio sulla classe operaia, contro il padronato e negli anni della perenne crisi – denuncia un mondo dominato dalla burocrazia in cui sono privilegiati gli interessi della criminalità legata al narcoallevamento e quelli dell’industria attratta dai vantaggi economici della deforestazione (nella fattispecie i produttori della soia transgenica).
Intrecciando dialoghi via Skype con parenti e amici (tra i quali il regista Marco Bechis) ed elementi più vicini all’inchiesta, costituti dalla raccolta di interviste e testimonianze, senza rinunciare a immagini che si calano nelle viscere della natura né a certe suggestioni da thriller politico, Chaco (in lingua inca significa “luogo di caccia”) si staglia quale esemplare e personale modello di cinema militante, in cui è lo strumento stesso del filmare l’arma per provare a combattere i soprusi del potere. Dalla parte dei guaranì che intendono difendere il proprio territorio, contro un governo che appoggia i latifondisti e non tutela i nativi, come in un diario di guerra che registra i fatti in prima linea, Incalcaterra lotta e spiega la buona ma disperata battaglia, pur con la malinconica consapevolezza di non poter fare altro che il proprio lavoro.
Indefesso cronista e al tempo stesso protagonista del racconto, fa un cinema della moralità, concentrato su quella periferia che Papa Francesco (che nel film ha un ruolo fondamentale) ha identificato come la “fine del mondo”, nel momento in cui essa è messa alla prova da politiche reazionarie come quelle del brasiliano Jair Bolsonaro, oggi pericoloso dominus del Sudamerica, non a caso fortemente appoggiato dai grandi proprietari terrieri.