Cinefilia Ritrovata ha avuto il piacere di intervistare Edoardo Ferrario, giovane promessa della comicità italiana, e di scambiare quattro chiacchiere con lui su temi quali limiti della satira, la tragedia di Charlie Hebdo e la commedia italiana contemporanea. Il comico romano ha iniziato a farsi conoscere attraverso comparsate televisive in programmi come Un, due, tre, stella! su La7, La prova dell’otto su Mtv, #Aggratis su Rai2 e Neri Poppins su Rai3, successivamente è divenuto famoso tra i giovani grazie alla webserie Esami – La serie (vincitrice al Taormina Film Fest 2014), della quale è ideatore, autore ed interprete e ora partecipa a Staiserena, il nuovo programma radiofonico di Serena Dandini su Radio2. Ma, va detto, Ferrario nasce come monologhista e utilizza il modello del one-man show all’americana: un microfono, una voce, una luce. Infatti insieme a Francesco De Carlo e Saverio Raimondo ha fondato a Roma il Cocktail Comedy Club, un locale davanti al Colosseo dove ogni mercoledì e giovedì sera i tre cercano di portare in Italia la stand-up comedy.
Dopo i tragici eventi che hanno coinvolto la redazione di Charlie Hebdo in Francia, nel mese di febbraio la Cineteca di Bologna ha approfondito il dibattito sulla libertà d’espressione legata alla satira dedicando alla rivista una rassegna. Cosa ne pensi di quello che è successo? Secondo te la satira deve avere dei limiti?
No, la satira non dovrebbe avere dei limiti. O meglio, ci sono dei limiti che la riguardano, delle regole da rispettare. In ogni monologo ogni battuta, soprattutto quelle più forti e più controverse, deve essere satiricamente giustificata. Io credo fermamente ad esempio che non si possa fare satira sulle vittime. Non si possono fare battute sulle vittime di una tragedia senza che ci sia, appunto, una giustificazione satirica motivata, altrimenti si tratta semplicemente di aggressione.
È la cosiddetta comicità fascistoide, giusto?
Esatto. Io credo che si possa parlare di qualsiasi cosa, non ci sono argomenti che la satira non può toccare. Però non si può mai fare una battuta semplicemente perché fa ridere l’autore. Mentre lavoro mi chiedo sempre: “Se faccio una battuta del genere qual è la sua giustificazione satirica? Qual è il messaggio che voglio veicolare?”. Per quanto riguarda i temi, no, la satira non deve avere alcun limite, non ci possono essere ed è giusto fare satira religiosa. La religione è una credenza, è un’opinione in fondo, valida quanto quella di chi non crede. È importante poter sentire un parere e il suo contrario. Quello che è successo in Francia è particolarmente inquietante perché è un attacco doppiamente vile. Quando viene fuori l’argomento della censura sulla satira io mi ritrovo sempre a pensare: “Ma un monologo non ha mai fatto male a nessuno, una battuta non potrà mai davvero fare male a qualcuno”. Quello che è successo fa emergere la valenza di questa frase. Nel momento in cui vengono uccise dodici persone di una redazione per aver scritto delle battute ti rendi conto effettivamente di quale sia il vero valore della violenza rispetto al peso che può avere la satira.
Nell’articolo sulla rassegna ho scritto: “Per un totalitarista niente è più umiliante di venir ridicolizzato, di veder trasformata la sua inquietante figura in fonte di ilarità. Ecco perché se la prendono con la satira. La temono perché ci permette di ridere di loro”. Sei d’accordo? Secondo te c’è dell’altro?
È esattamente così. Effettivamente è quello ciò che può spaventare il potere. Ed è per questo che la satira è così ambigua e temuta, perché è un mezzo di per sé innocuo: non sto sabotando il governo, manifestando contro di esso o mettendo una bomba, tuttavia sto veicolando con un mezzo potentissimo – la comicità – un messaggio che è contro l’autorità. Forse può essere molto più efficace proprio per l’appetibilità della comicità in sé, per il valore del riso che è qualcosa di contagioso. Penso che un messaggio comico particolarmente efficace – un’idea veicolata con una battuta molto divertente – può essere molto più convincente rispetto all’editoriale di un giornalista, uno scontro di piazza o un documentario. C’è qualcosa di particolarmente insidioso nel potere del comico ed è ciò che il potere maggiormente teme.
Una volta Daniele Luttazzi disse: “La satira sulla religione non offende le persone, solo i loro pregiudizi”. È pertanto necessario che il pubblico abbia voglia di ridere di questi ultimi, delle proprie credenze, certezze, in una parola: di se stesso. Non credi che sia forse questo l’ostacolo più grande?
Certo, questa è la cosa che fa più paura e al tempo stesso la cosa più bella. A me la comicità che piace di più è quella che fa ridere dei propri vizi, quindi anche dei propri pregiudizi, delle proprie debolezze. Non mi piace la satira che pontifica ad esempio, non amo molto la satira politica dai toni semplici. A me non piace chi fa il sermone, il comico che si erge a censore o moralizzatore. Credo che il nostro lavoro sia efficace quando siamo noi stessi a trasmettere le nostre debolezze, in esse il pubblico si identifica ed è lì che arriva veramente la risata catartica, nel saper esorcizzare le nostre paure in modo da rendersi conto che in fondo siamo tutti uguali. È chiaro che un enorme ostacolo per la comicità religiosa si manifesta nel momento in cui il pubblico non sia disposto a ridere sulle proprie credenze più profonde, che nella natura stessa della religione sono assolutamente intoccabili. Non si può discutere su un dogma, mentre invece la satira religiosa fa esattamente questo. C’è bisogno di un pubblico particolarmente aperto mentalmente per saper ridere di quel dogma. Quindi quella religiosa è forse il tipo di satira più difficile perché mira a scardinare delle credenze che sono profondamente insite nel pubblico, se quel pubblico è fedele.
Insieme a vignettisti e comici un tempo l’Italia aveva anche un manipoli di registi che irridevano vizi e difetti della società. Secondo te in che condizioni versa la commedia italiana di oggi? C’è qualcuno che prova a vedere il genere come un’opportunità per fare critica sociale, satira dei costumi, provocare riso amaro, tutte caratteristiche che fecero grande la commedia all’italiana di Risi, Monicelli e Comencini?
Mi sembra che oggi la comicità, anche per quanto riguarda il cinema, si sia molto alleggerita. Rispetto alla commedia all’italiana i tratti più interessanti si sono assolutamente asciugati e inariditi. Non vedo oggi al cinema particolari esempi di quella comicità di cui parli. Non ce ne sono di opere fatte in quel modo, con quella profondità, quella cura, quella cattiveria, quell’amarezza, è tutto molto diverso. Per me un segnale positivo è vedere sempre più ragazzi della mia età muovere i primi passi nel mondo della comicità – sia dal vivo che nei video sul web – e notare come i punti di riferimento stiano cambiando. Da una parte prende piede la comicità anglosassone e dall’altra sta tornando la commedia all’italiana. Questo mi fa assolutamente ben sperare perché penso che si possa finalmente iniziare ad approcciare temi nuovi, o comunque tornare a quella che poteva essere, come dici tu, la commedia all’italiana, quindi far ridere facendo personaggi e usando un linguaggio comprensibile a tutti ma allo stesso tempo non superficiale. Noi ogni ultimo mercoledì del mese facciamo serate “Open Mic” durante le quali facciamo esibire comici esordienti. È bello vedere come adesso chi è nuovo nell’ambiente i primi pezzi non li fa sul traffico o sulla suocera ma su temi che mi ricordano quelli dei miei comici di riferimento. Fa piacere vedere che ora l’ispirazione venga dai comici americani e inglesi, in mancanza degli italiani che purtroppo negli ultimi anni hanno scarseggiato in quanto a originalità. Penso che sia assolutamente positivo che un ragazzo di vent’anni dica: “Per questo monologo mi sono ispirato a Louis CK” perché guardare all’estero fa indubbiamente alzare i gusti del pubblico e fa cambiare il linguaggio, che è quello che ci vuole adesso nella comicità.
Forse nel cinema italiano quelli di Boris, Ciarrapico, Torre e Vendruscolo, tentano di spingere un poco, di andare oltre gli schemi consolidati della commedia di oggi. O no?
È vero, hai ragione. Mi ero vergognosamente dimenticato di loro. Uno dei pochi esempi negli ultimi anni di comicità veramente riuscita e che mi ha fatto veramente ridere, peraltro appunto molto moderna e molto contemporanea. Boris potrebbe essere scritta, girata e prodotta come una serie americana, è stato un tentativo molto ben riuscito. Anche al cinema hanno cercato decisamente di alzare il livello. A me personalmente è piaciuto di più Boris – Il film di Ogni maledetto Natale ma penso comunque che Ciarrapico, Torre e Vendruscolo abbiano le mie stesse opinioni per quanto riguarda la comicità. Con Boris sono stati dei pionieri, è la cosa più originale vista in televisione negli ultimi vent’anni in ambito di fiction e serialità, quindi sono senz’altro un esempio di commedia italiana contemporanea da tenere in considerazione.
Quali sono i tuoi comici americani e inglesi preferiti? Li conoscevi anche prima che li sdoganasse ComedySubs (sito che si occupa di sottotitolare spettacoli di comici stranieri, n.d.r.)?
Sì, li conoscevo anche prima ma ComedySubs (ora ComedyBay, n.d.r.) è stato comunque fondamentale. Io non perdo mai occasione per ringraziarli per l’enorme lavoro che stanno facendo, sono stati il primo sito italiano a far conoscere la comicità anglosassone in Italia. C’era questa assurdità totale per cui se tu dieci anni fa andavi da un comico italiano e gli chiedevi se conosceva, chessò, anche la Bibbia della comicità americana tipo Bill Hicks e George Carlin, questo ti rispondeva: “No, perché non conosco la lingua..”. Che non vuol dire niente, è come se un regista italiano non conoscesse Kubrick solo perché è americano. È una cosa che non si poteva sentire. ComedySubs ha colmato questa lacuna e spero che un giorno gli verrà data una medaglia al valore per questo. I miei comici stranieri preferiti sono Louis CK, secondo me il numero uno, un portento, ha veramente modificato il linguaggio, ha saputo dire qualcosa di nuovo rispetto al panorama dei comici americani. Poi mi piace molto Doug Stanhope, che lo potremmo definire il nuovo Bill Hicks, mi piace molto la sua aggressività, è fortissimo. Anche Jim Jeffries, l’australiano, mi fa morire dal ridere. Jimmy Carr mi piace molto anche se lo conosco poco. Andavo pazzo per Human Giant, uno sketch comedy show su Mtv scritto e interpretato, tra gli altri, da Aziz Ansari che trovo molto bravo. Infine tra gli inglesi mi piace molto il grandissimo Ricky Gervais, il “sofisticato” Stewart Lee e infine Eddie Izzard, che è stato fondamentale per la mia formazione.
Invece tra i comici italiani chi ti piace?
Ho sempre avuto un’adorazione smodata per Carlo Verdone e Corrado Guzzanti. Mi piace moltissimo Antonio Rezza, uno dei pochi geni che abbiamo in Italia. Infine Antonio Albanese, fortissimo, genio totale, nonché uno degli attori italiani più bravi in circolazione, un fuoriclasse proprio.
Se sei del 1987 quest’anno fai ventotto anni come il sottoscritto. Nei tuoi pezzi è pieno di riferimenti alla cultura pop contemporanea (le serie televisive, i cartoni animati) e quella che racconti è una realtà che chi ha più o meno la nostra età conosce bene (gli esami all’università, i social network). Eppure nei tuoi monologhi è come se ci fosse una volontà di preservare una dimensione antica, fatta di dialetti, di accenti, di panini schifosi dallo “zozzaro de borgata”. Mi sbaglio o vedi in tutto ciò un patrimonio culturale, un mondo che non deve morire?
Certo, a me piace molto fare riferimenti alla contemporaneità. Quando ho iniziato a scrivere i primi pezzi, più o meno cinque anni fa, il mio primo spettacolo l’ho fatto di fronte ad un centinaio di amici miei in un pub, e l’ho pensato come uno show che avrei davvero avuto voglia di sentire. All’epoca le cose che vedevo in televisione non mi facevano ridere quindi ho pensato a quanto sarebbe stato divertente se in un monologo avessi sentito parlare di cose che mi riguardavano molto da vicino, come l’università che all’epoca ancora frequentavo, o i riferimenti musicali legati ai gusti miei, dei miei amici, coetanei e dei ragazzi della mia città. O come parlare delle persone che avevo frequentato per anni e che sapevo benissimo che il pubblico avrebbe riconosciuto nel mio monologo, senza preoccuparmi del fatto che se fosse venuto un adulto non avrebbe capito tutto. Il mio desiderio era rivolgermi ai miei coetanei e raccontare qualcosa che li toccasse nel profondo. Allo stesso tempo amo contrapporre quella che era una normalità per tanti anni come il “panino dallo zozzo” con il cambiamento di valore e di estetica di oggi che secondo me è molto frivolo. Per me parlare delle hamburgeserie è molto contemporaneo perché esistono e sono ovunque. Allo stesso tempo la maggior parte di quei posti secondo me sono fuffe, trovate commerciali che in un certo senso nascondono dietro un vuoto che sarebbe stato meglio riempire con quello che c’era prima. Mi diverte molto focalizzarmi su come erano le cose prima e su come stanno cambiando rapidamente. Non mi piacerebbe fare uno spettacolo in cui parlo solo delle cose di oggi. Mi piace fare rimandi al passato, anche su diversi contesti. Col pezzo sul “produttore di Ungaretti” ad esempio mi piace molto mischiare sacro e profano, parlare di ermetismo e poi dire che c’era comunque un produttore che pensava sempre e solo a sbigliettare (ride). Quindi sì, in questo senso è molto giusto quello che dici sul preservare dei valori e delle caratteristiche che sono sempre stati nostri. Io sono poi un’amante dei dialetti e degli accenti. Buona parte della mia comicità passa per il linguaggio, i dialetti sono una delle cose che mi diverte di più. Dicono tanto delle persone, dire una cosa in un dialetto piuttosto che in un altro ti cambia il punto di vista, cambia il contenuto di ciò che stai dicendo. È una cosa che mi piace molto, mi diverte sempre e cerco di preservare in tutti gli spettacoli.
Quando nel 1994 Enzo Biagi intervistò Roberto Benigni, gli fece secondo me la più bella domanda che si possa fare ad un comico. Ed ora la rigiro a te: quando ti sei accorto che facevi ridere la gente?
Me ne sono accorto alle elementari. Già all’epoca mi resi conto che mi divertiva tantissimo stare di fronte ad un gruppo di persone, dire una cosa e vederle scoppiare a ridere. È un meccanismo che mi ha sempre incuriosito e affascinato, e da allora ho sempre continuato a farlo fino ad oggi. Ero meno di un pischelletto quando l’ho capito, ero un post-infante (ride).
Ti ringrazio tantissimo per la bella chiacchierata, ricordiamo ai nostri lettori che per chi fosse interessato Edoardo Ferrario si esibirà domenica 3 maggio al Combo Social Club di Firenze.