Salito alla ribalta con Jordan Peele, l’horror afroamericano è diventato uno dei generi di maggior successo della recente produzione hollywoodiana con risultati altalenanti, ma comunque rappresentativi di un fenomeno culturale in rapida ascesa che, ribaltando gli stilemi classici del genere, ne rielabora e aggiorna contenuti, dinamiche e paradigmi narrativi ormai consolidati. Ma la storia del cinema statunitense mostra chiaramente che la questione nera è stata da sempre connessa alla realtà nazionale o meglio a una sua lettura e conseguente rappresentazione discriminatoria e razzista.

Come ben si evince da Horror Noire: A History of Black Horror di Xavier Burgin – documentario che ripercorre l’evoluzione dell’afroamericano in questo genere, da mostruosa minaccia a eroico protagonista –  “la storia nera è l’horror nero”; la sua immagine è stata a lungo filtrata dallo sguardo suprematista bianco, un misto di paure e disprezzo che ha fatto del “diverso” l’incarnazione di ogni male e minaccia per l’ordine istituito.

Già da Nascita di una nazione, l’uomo nero è rappresentato come una creatura ripugnante attentatrice alla purezza della donna bianca e per questo meritevole di essere annientato. Questo film, tanto essenziale per l’evoluzione tecnica del cinema, si dimostra ancora oggi come una delle più disturbanti opere inneggianti al razzismo e alla violenza etnica, che contribuì notevolmente a una recrudescenza dell’ormai estinto Ku Klux Klan (si pensi alla memorabile sequenza di BlackKklansman di Spike Lee che opera proprio sul film di Griffith). L’afroamericano viene così associato a tutto ciò che è maligno o mostruoso, come le africane cedute come schiave sessuali ai gorilla di Ingagi (William S. Campbell) dalle cui unioni sarebbero nate creature mezzi uomini mezzi scimmia i cui discendenti ne portano ancora traccia nel loro DNA, o l’inquietante zombi caraibico Carrefour di Ho camminato con uno zombi (Jacques Tourneur).

Ancora più emblematici sono invece i riferimenti metaforici al nero come minaccia. Tra gli anni Trenta e Cinquanta nei contesti borghesi che facevano da sfondo ai film orrorifici e fantascientifici, la presenza di afroamericani non era neppure considerata: semplicemente non esistevano, esclusi a prescindere da contesti che restavano così a sola esclusiva bianca. In questa maniera, il mostruoso, la minaccia, l’orrore è rappresentato da tutto ciò che non è di origine caucasica. Non a caso allora le creature di film presentano tratti riconducibili a particolari etnie, in primis quella africana (la natura scimmiesca di King Kong o le labbra e gli occhi sporgenti del mostro della laguna nera), sottolineando così come gli “altri” apparissero “alieni”.

Il 1968 nel pieno fervore del Black Power, La notte dei morti viventi di George A. Romero segna una vera rivoluzione nell’iconografia horror dell’afroamericano ponendo l’attore Duane Jones nel ruolo del protagonista Ben, primo eroe nero impegnato in una lotta costante per la propria sopravvivenza contro gli zombi che infestano una cittadina della Pennsylvania. E la sua uccisione a fine film da parte di un agente non può non far pensare a una sorte troppo comune destinata agli afroamericani meno arrendevoli, arricchendo così la pellicola di una venatura politica non indifferente. Il successo del film e del personaggio di Jones rappresentano un punto di svolta nel cinema horror americano, dimostrazione che anche un protagonista nero poteva reggere la scena e convincere un pubblico multietnico, segno di un clima ormai inevitabilmente cambiato.

La blaxploitation non fa che rimarcare quest’idea, con pellicole spesso poco riuscite ma essenziali per lo sdoganamento dell’iconografia e dei temi black per il grande schermo. Giocando coi topoi del genere, Blacula (William Crain), Blackenstein (William A. Levey), Abby (William Girdler), Sugar Hill (Paul Maslansky) o Dr. Black and Mr. White (William Crain) contribuiscono a creare un’immagine più realistica e sessualizzata dell’afroamericano e del suo ambiente ma volta sempre in negativo, finendo per perpetrare sotto prospettive diverse gli stessi stereotipi culturali bianchi da sempre loro associati. Un discorso a parte merita Ganja & Hess di Bill Gunn, in cui la vicenda vampiresca è solo un pretesto per un’opera più sperimentale radicata nella dimensione interiore afro-americana, quella commistione di sangue e culture su cui il nero statunitense è da sempre chiamato a confrontarsi.

Negli anni Ottanta, con la politica fortemente conservatrice e patriottica di Ronald Reagan, il cinema horror rispecchia il modello del superuomo bianco tipico dell’industria culturale coeva, una figura virile, coraggiosa e sempre impegnata per la giusta causa, e perciò sempre vincitrice. L’afroamericano è frequentemente relegato di nuovo a ruoli marginali di prima vittima o vittima sacrificale per la salvezza degli altri come in Venerdì 13 (Sean S. Cunningham), Shining (Stanley Kubrick), Nightmare (Wes Craven) o From Beyond (Stuart Gordon).

In altri casi è invece attraverso il personaggio nero che la creatura o il maleficio prolifera e continua a vivere, ad esempio in Alien (Ridley Scott), La cosa (John Carpenter), Angel Heart (Alan Parker) o Il serpente e l’arcobaleno (Wes Craven). Questi modelli si associano spesso a un’ambientazione prevalentemente periferica delle grandi metropoli americane, quartieri abitati non a caso prevalentemente da neri: i moderni ghetti diventano così metafora di una nuova minaccia interna e sotterranea all’ordine istituito, come Amytiville Horror (Stuart Rosemberg), Halloween (John Carpenter), Poltergeist (Tobe Hooper) o Candyman (Bernard Rose).

È dagli anni Novanta che una nuova tendenza prende piede nel cinema statunitense. I successi di Spike Lee, John Singleton e i fratelli Hughes portano all’attenzione del grande pubblico le dinamiche contemporanee relative alla questione nera, facendone un tema di grande richiamo e interesse da parte di pubblico e critica. Il black style, le sue tendenze, lo slang diventano parte dell’immaginario collettivo, non sempre in forme costruttive ma comunque di indiscutibile fascino narrativo.

L’horror si adatta a questo fenomeno, con alcune pellicole dirette da registi afroamericani con attori neri protagonisti di vicende legate alla propria tradizione e mitologia metropolitana che presentano però forti ed evidenti rimandi alla realtà contemporanea (Def by Temptation di James Bond III, Tales from the Hood di Rusty Cundieff, Il cavaliere del male di Ernest Dickerson o Il sangue di Cristo di Spike Lee) e altri film che attingono alla cultura hip-hop in voga in quei anni. Rapper come LL Cool J, Ice Cube, Snoop Dogg vestono ruoli centrali in Halloween – 20 anni dopo (Steve Miner), Anaconda (Luis Llosa) e Bones (Ernst Dickerson) venendo a instaurare un parallelo tra il genere musicale nero per eccellenza del decennio e il cinema che racconta l’orrore e le paure più recondite, espressione di un’influenza reciproca che si manifesta anche nei bizzarri Vampz (Steve Lustgarten) o Bloodz vs Wolvez (Z. Winston Brown).

Sul finire del secolo, gli afroamericani acquisiscono sempre maggior rilievo nel genere, assumendo ruoli più centrali e prominenti come Wesley Snipes in Blade (Stephen Norrington), Will Smith/Robert Neville in Io sono leggenda (Francis Lawrence), John Boyega/Moses in Attack the Block (Joe Cornish) o Sennia Nanua/Melanie in The Girl with All the Gifts (Colm McCarthy). Sono intrepidi eroi a tutto tondo, determinati a compiere la propria missione salvifica per l’umanità alla stregua dei corrispettivi bianchi. Una non indifferente inversione di rotta rispetto ai canoni pregressi che permette di rileggere a posteriori l’evoluzione di tale concezione con una consapevolezza di ciò che è stato e che ora invece deve essere.

Jordan Peele con Scappa e Noi si inserisce in questa tendenza, facendo dei suoi film la manifestazione di un nuovo paradigma culturale e iconografico che, partendo dal cinema, ampli il suo discorso al contesto sociopolitico nazionale. Le sue opere, assieme a Sorry to Bother You di Boots Riley, hanno dato forma a un nuovo sottogenere squisitamente afroamericano dell’horror, l’Afrosurrealismo: un cinema che trasla l’orrore della realtà nera contemporanea nel surreale, inteso come rappresentazione volutamente eccessiva e iperbolica di situazioni concrete al fine di rendere evidente quanto ancora pare sommerso e taciuto dalla buona coscienza comune.

La salita alla ribalta del movimento pacifista Black Lives Matter ha fatto il resto, convogliando le esigenze artistiche di giovani autori in una sensibilità politica e civile verso le pressanti problematiche razziali che caratterizzano il vivere comunitario americano in prodotti provocatori e incisivi, volutamente di parte e disturbanti come La prima notte del giudizio (Gerard McMurray), Bodycam (Malik Vitthal) o Candyman (Nia DaCosta). Film che non vogliono alimentare una mera partigianeria, ma scuotere coscienze singolari e collettive verso gli orrori che ogni giorno una parte del Paese vive e l’altra osserva ora però non più legittimata a farsene solo testimone.