La serata inaugurale dell’edizione 2017 del Cinema Ritrovato è stata costellata, in senso quasi letterale, dal potere fantasmatico della luce: ai bagliori del mare su cui si è aperta e chiusa À propos de Nice (1929), opera prima di Jean Vigo, e alle superfici riflettenti di acqua e vetro del suo capolavoro indiscusso, L’Atalante (1934), si è unito il passaggio di un fascio luminoso (o più romanticamente stella cadente) che ha incantato il pubblico di Piazza Maggiore suggellando uno dei momenti più intensi del film culto, la notte d’amore in absentia dei due sposi protagonisti del restauro più atteso del festival di quest’anno.
Immagini in movimento, scrittura di luce: non servirebbero altre espressioni per dare conto della fragile bellezza dei due punti di confine dell’opera di Jean Vigo, esile nel numero, potentissima nella lunga durata (una per tutte: la celeberrima sigla di Enrico Ghezzi incastonata nel trailer di presentazione del Cinema Ritrovato 2017).
Si potrebbero leggere le proiezioni della serata nel loro complesso come una sorta di movimento musicale che proprio nella riflessione sulla luce trova un leitmotiv unificante. L’ouverture è stata affidata alla proiezione di una piccola scoperta: la versione ritrovata e digitalizzata dal Národní technické muzeum di Praga di una ripresa cronofotografica di Jules Marey a Place de la Concorde (1888-1904). Il montaggio iterato e alternato fra positivo e negativo del passaggio circolare e quasi evanescente di carrozze, biciclette e passanti ha preparato lo spettatore al connubio fra luce e spirito urbano di À propos de Nice, inscrivibile nel genere specifico della sinfonia urbana, e che tuttavia ne amplia semanticamente i confini attraverso un’arma retorica ben identificabile anche nell’Atalante: l’ironia.
Un’ironia carnevalesca (Nizza è colta infatti durante i preparativi prima, ed i festeggiamenti poi, del carnevale) di godimento ai limiti del grottesco in cui si insinua l’ombra della morte: i corpi luminosi delle ballerine dei carri, menadi colte a rallentatore nei gesti quasi animaleschi, vengono accostati al biancore pietrificato delle statue cimiteriali; inquadrature oblique e ondivaghe ripercorrono le palme, le colonne dei palazzi, ma anche i camini di fabbriche deserte; il corpo vitale di una giovane donna, ripreso in sequenza ora vestita ora svestita, sembra mineralizzato nelle gambe non nude, ma velate, delle signore della borghesia bene della località balneare. La sonorizzazione superba di Stephen Horne (pianoforte) e Frank Bockius (batteria) ha sottolineato, attraverso un’alternanza di movimenti ora malinconici ora sincopati, la materia di una città dominata dai gesti netti (insistente l’attenzione per il “pulire”, che sia della strada, del piatto, del tavolo da gioco), e dalle profonde contraddizioni (i ragazzi di strada, i borghesi che leggono il giornale al bar), cui Vigo fa riferimento però in modo obliquo, secondo la cifra di una calviniana leggerezza.
Non c’è bisogno di ribadire che proprio leggerezza e semplicità dominano L’Atalante, presentato nel restauro filologico condotto da Gaumont in collaborazione con Cinématheque française, Film Foundation e la sede parigina dell’Immagine Ritrovata. Non ha bisogno di commento un film pressoché perfetto, in cui lo spettatore non può che immergersi, come fanno i protagonisti nell’acqua di fiumi, secchi e canali. Ma volendo proseguire la riflessione suggerita dalle proiezioni precedenti, è sicuramente nello sguardo della protagonista Juliette che possiamo ritrovare quel leitmotiv di luce naturale e urbana. Il primo piano della giovane donna è puro irraggiamento, ed è lei che incanta le inquadrature più sperimentali del film: dalle due scene più celebri della visione subacquea (in cui appare quasi come una ninfa warburghiana) e della notte d’amore in assenza (in cui è portatrice di un’immagine modernissima del desiderio femminile), a quelle altrettanto magistrali delle vie di Parigi. Qui i riflessi fra specchi, vetrine, manichini e passanti non è puro gioco, ma un raffinatissimo mezzo di riflessione sulle ambiguità identitarie di una donna alle prese con la città (tema decisamente battuto in tutto il modernismo europeo), sul confine sottile fra indipendenza e perdita di sé. Lo sguardo ironico, tipico del fou, di père Jules (forse l’altro vero protagonista del film) ha fornito il contrappunto tagliente alla poeticità effimera di nebbie, neve, piogge, e ha fatto risuonare la Piazza di risate in cui era palpabile l’affetto per un film tanto amato e che, affidandosi alle parole inaugurali di Nicolas Seydoux, non vediamo l’ora di rivedere e di riascoltare al prossimo restauro.