Restaurato da Cineteca di Bologna, Istituto Luce, Cinecittà e Criterion, in collaborazione con Warner Bros. e Park Circus presso i laboratori Criterion e L’Immagine Ritrovata, con la supervisione del direttore della fotografia Luca Bigazzi, presentato alla settantesima edizione del Festival di Cannes, in occasione dei cinquant’anni dalla vittoria della Palma d’Oro, Blow Up di Michelangelo Antonioni è anche uno degli appuntamenti con cui si chiude il Festival del Cinema Ritrovato.

Ispirato al racconto breve Le bave del diavolo dell’argentino Julio Cortázar, Blow Up si pone a grande distanza dalla narrazione intesa come intreccio, allo scopo di comunicare esclusivamente un senso di mistero e ambiguità. La poetica che “tende a promuovere nell’interprete atti di libertà cosciente”, elaborata da Umberto Eco in Opera aperta (1962), ha trovato con il film di Antonioni una vera e propria dimostrazione cinematografica: determinando un disorientamento emotivo e mentale, Blow Up costringe lo spettatore a interrogarsi sul significato della visione attraverso quesiti estetici e filosofici messi in campo sotto forma di allegorie.

La storia si svolge nella Londra degli anni sessanta, la "swinging London", città simbolo di una nuova modernità in cui l’opposizione fra conservazione e ribellione è in continuo fermento e l’immagine è il veicolo principale della comunicazione attraverso mass media, riviste, cartelloni, spettacoli, modelle, arte astratta. Il fotografo Thomas scatta alcune foto in un parco a una coppia di innamorati e sviluppandole si accorge che potrebbe aver fotografato un omicidio. Mentre cerca di scoprire la verità, questa si allontana da lui al punto da fargli credere di aver immaginato tutto. “La crisi del personaggio del film è stata un po’ anche la mia” ha dichiarato Antonioni, che ha reso il protagonista di Blow Up un alter ego di se stesso e della propria ricerca estetica. Proprio per questo lo sguardo di Thomas, quasi mai ripreso in soggettiva, rappresenta un modo per indagare empiricamente la realtà, quasi un doppio dello stesso regista che osserva gli eventi a distanza, con la meticolosità dell’esploratore. Di contro, però, le immagini del film dimostrano che ogni ricerca di senso è destinata a perdersi nella molteplicità dei significati e delle interpretazioni.

L’esperienza sensibile è inevitabilmente fonte d’inganno. Thomas infatti si illude, attraverso l’ingrandimento, il blow up, di superare i limiti dei suoi occhi e dell’obiettivo ma quello che ottiene è una visione confusa: gli ingrandimenti successivi mostrano soltanto, giganteschi, i granelli bianchi e neri della pellicola. Il massimo dell’obiettività, ossia la riproduzione fotografica del reale, coincide dunque con l'indecifrabilità. Il “giallo” di Blow Up non conduce a svelare un omicidio e a smascherare un assassino poiché il mistero attorno a cui ruota tutta la storia intende soltanto provare che la verità non esiste.

Esistono le intuizioni dell’arte, le interpretazioni soggettive, le sublimazioni estetiche ma la realtà oggettiva a cui queste rimandano rimane sostanzialmente indefinita e inafferrabile. La partita a tennis del finale esplicita allegoricamente questo concetto, ossia mette in gioco, oltre allo sguardo, anche l’immaginazione di chi osserva: esattamente un’interpretazione. L'arte deve arrendersi alla finzione. I mimi giocano senza palla né racchette mentre Thomas, ormai convinto di aver immaginato tutto, sente il rumore della palla percossa dalle racchette inesistenti. Come ha giustamente osservato Roland Barthes parlando di Antonioni: “Lui, l’artista, sa che il senso di una cosa non è la sua verità”.

Grazie a contenuti teorici capaci di dialogare con la moderna società delle immagini, in cui la realtà si nutre sempre più di contenuti virtuali, Blow Up rende dunque incredibilmente attuale la fascinosa meditazione sull’impossibilità di tracciare un confine certo fra realtà e finzione.