Severine/Catherine Deneuve incarna la frigidità di una donna altera ed eterea, distinta e aristocratica, che dà sfogo alla sua alienazione in un distorto e nevrotico erotismo. Già due anni prima di Bella di giorno, nel 1965, Roman Polanski aveva evocato in Repulsion la doppia vita dell’erotismo di Carol – interpretata, non a caso, dalla stessa Deneuve – in un gioco di eco e parallelismi, dove è Buñuel a toccare le più ambigue corde del femmineo. Passando dalla sua più sublime, quasi beatifica manifestazione a quella più sordida e bassa, Bella di giorno ingabbia lo spettatore inizialmente nel piacere estatico e onirico dei protagonisti e poi nella brutalità di un eros che sconfina nel grottesco, ma ciò che rende quanto più reale e vicina l’esperienza di Severine è proprio questo: lo sradicamento delle pulsioni, il contrasto tra l’effimero e l’eterno, l’animo e la carne, quest’ultima sempre così pulsante e viva nell’immaginario del regista.

Legato a Breton e al suo Manifesto, Buñuel aderisce senza riserve a quell’automatismo psichico con cui si era soliti definire il Surrealismo, esprimendo la realtà del pensiero “al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale”. Severine è una facoltosa borghese con un’esistenza che scivola tra le normali e deprimenti pieghe del quotidiano e un marito tormentato per l’inafferrabilità della psiche muliebre, incompatibile con l’ordinario. Da sottile analista degli ossimori, delle dissonanze criptiche, per Buñuel la chiave interpretativa di Severine risiede nella realtà oltre la forma del reale circoscrivibile in categorie spaziotemporali, vale a dire nel sogno.

Bella di giorno si muove indistintamente tra i diversi amanti nella realtà effettiva e il senso di colpa nei confronti del marito consumatosi nella traslucida apparenza onirica: Severine è consapevole della sua anormalità, del suo essere altro rispetto alla morale e tale cognizione prende forma nell’umiliazione e autocommiserazione. La realtà e il sogno proliferano, si giustappongono e contrappongono senza che lo spettatore riesca a coglierne i passaggi, ellittici tanto quanto certi scambi di battute che neanche agli attori (come ha affermato la stessa Macha Méril) era consentito cogliere. Tutta la vicenda è avvolta da un’aura di sinistra atemporalità, come in uno di quei sogni dove Severine è incatenata ad un albero, penitente e con lo sguardo trasognato, presa da un incomprensibile rapimento estatico.