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“Él” nella storia della critica
In occasione della distribuzione di “Él” restaurato, ecco un viaggio nella critica e nell’analisi del film, con tante firme importanti che se ne sono occupate: “Si ritrova in Él la stessa obiettività documentaria esacerbata che era all’inizio del film Las Hurdes. Buñuel ama dire che egli si è interessato a Francisco con la curiosità con cui avrebbe osservato il comportamento di un topo. Dice anche che ha gusti da entomologo e che osserva il suo personaggio come un insetto” (André Bazin).
“Él” ritratto di un paranoico. Nascita di un capolavoro
In occasione della distribuzione di “Él” restaurato, ecco alcune dichiarazioni di Luis Buñuel e alcune fonti critiche dedicate alla storia della pellicola. Secondo l’autore “Él è uno dei miei film preferiti. A dire il vero non ha niente di messicano. L’azione potrebbe svolgersi in qualsiasi posto, dato che presenta il ritratto di un paranoico”. Secondo Farassino, “un saggio di entomologia umana”, tra i picchi del periodo messicano.
“Él”: melò patologico e antiromantico
Parte del terribile divertimento che scaturisce dalla visione di Él – comunque fra i film più cupi e drammatici del regista – viene dall’accanimento con cui Buñuel prende di mira il suo antieroe, dall’insistenza nel mostrarne la comica mostruosità, dalla capacità di rappresentarne i deliri in forma visuale, passando rapidamente dalla serietà all’ironia, dal sacro al profano. In questo senso, Él è un distillato corrosivo della poetica del regista spagnolo: un vero e proprio compendio buñueliano.
“Il fascino discreto della borghesia” 50 anni dopo
Il fascino discreto della borghesia resta un film emblematico, seminale, lontano da ogni possibile (fin troppo semplicistica) catalogazione. Il film di Luis Buñuel, complice la sceneggiatura scritta a quattro mani con Jean-Claude Carrière (entrambi creeranno le basi per quello che sui può definire il “nuovo surrealismo cinematografico”) non è altro che un ritorno alle origini. Non solo a quel Un chien andalou (1929), folle esperimento che andava addirittura già oltre i dettami surrealisti, diretto e interpretato insieme a Salvador Dalí, ma anche e soprattutto a una sorta di esplosione metaforica (visiva e narrativa) del successivo L’ âge d’or (1930).
Demolizione dello spazio narrativo. Rivedere “Un chien andalou”
la logica onirica di Un chien andalou è solo un pretesto. Non un escamotage per spalancare le porte alle infinite possibilità della mente, ma per chiuderle in faccia alla ricerca ossessiva di una spiegazione psicologica, razionale, antropologica, o più genericamente “culturale”, nel senso tyloriano del termine. E più che sigillarla, socchiuderla, quella porta, quasi a voler aspettare il momento giusto per stringere violentemente una mano nello stipite. La lama che nel racconto ambisce a tagliare l’occhio a Simone Mareuil non vuole lasciare spazio ad altro che alla violenza stessa della scena. E la didascalia del “c’era una volta” cede il posto a “otto anni prima”, “alle tre del mattino”, “in primavera”, in modo che la mente dello spettatore non abbia il tempo di rimandare l’immagine ad altro.
“Crash” di David Cronenberg a Venezia Classici 2019
“Mi piacciono tanto le manie. Ne coltivo qualcuna e ne parlo anche, qua e là. Le manie possono aiutare a vivere. Compiango gli uomini che non ne hanno”. Non è difficile pensare a un accostamento, o meglio, a una comunanza di idee e immaginario tra l’autore di quest’affermazione Luis Buñuel e le difformità del cinema di Cronenberg, perché in entrambi è vitale il bisogno di dare forma a tutto il rosario di corpi martirizzati che conosciamo e lo sguardo cinematografico legittima così ciò che fino a ieri era proibito. In Crash, come in Bella di giorno (1967) o Tristana (1970) lo spettatore è ingabbiato nella brutalità di un eros che sconfina nel grottesco e nell’aberrante, in un fuori dall’ordinario che però lo attanaglia. Le ossessioni per le offese corporali di stampo sadiano riecheggiano nelle immagini di Cronenberg e nel feticismo per le carni dilaniate e metalliche di Crash.
“Estasi di un delitto” a Venezia Classici 2019
Buñuel mette assieme quello che è considerato uno dei momenti più felici della sua filmografia messicana nel tentativo di apportare una forte critica nei confronti della borghesia del periodo, ma in generale delle istituzioni e del cattolicesimo, culto colpevole di instillare quell’ipocrita senso di colpa che porterà il protagonista a considerarsi unico responsabile dei decessi delle donne. Ma oltre al senso di colpa in Arcibaldo si annida la frustrazione di non essere in grado realmente di uccidere (sarà in grado solamente di bruciare il manichino fatto a immagine e somiglianza di Lavinia, una delle potenziali vittime) e il gesto di consegnarsi può anche essere letto come una rivendicazione di abilità, sessuale e poi criminale, almeno agli occhi della società.
“L’âge d’or”, rappresentazione del subconscio e critica politica
Con L’âge d’or Buñuel sembra superare i temi cari al primo periodo surrealista, quello di rottura con il Dadaismo accusato di invecchiamento precoce, per portare sul grande schermo una consapevolezza politica e sociale tipica invece del secondo periodo. Realizzato senza restrizioni, il film non risparmia nemmeno l’aristocrazia alla quale lo stesso mecenate apparteneva. Preoccupati più dal decoro sociale che dalla realtà che li circonda, i nobili dell’età d’oro sono profondamente scossi da quello schiaffo a Madame X mentre appaiono del tutto estranei all’incendio che divampa nella cucina durante i festeggiamenti e al bambino ucciso nel cortile.Le immagini di tipo documentaristico, accompagnate da didascalie scritte, con funzione di prologo alla vicenda narrata, diventano in questo contesto elemento necessario e imprescindibile per la comprensione del film. L’uncino dello scorpione, con la sua doppia funzione di strumento per il combattimento e per fare conoscenza, è simbolo di quelle tendenze opposte, odio e amore, rispetto delle regole e sentimento di ribellione, che caratterizzano i personaggi.
Surrealismo o neorealismo? L’identità unica e ambigua di “I figli della violenza”
Uno dei dati più interessanti dell’opera risulta proprio nel posizionamento ambiguo del film rispetto alle correnti artistiche cui strizza l’occhio. Come un osservatore neorealista, Buñuel trascorse sei mesi nei quartieri poveri della metropoli messicana, mescolandosi nel sottobosco sottoproletario e registrandone i tratti sociali; tuttavia, basta ascoltare la voce narrante nel prologo per comprendere l’anelito globale del film, che mette in secondo piano i tempi e i luoghi veri della vicenda. In qualche modo, la focalizzazione su un panorama pre-urbanizzato dai tratti mitici e l’ottica anti-positivista dell’autore sembrano più accostabili al successivo cinema pasoliniano, piuttosto che al neorealismo zavattiniano (per quanto l’aspetta della vicenda non possa non rimandare a Sciuscià).
“I figli della violenza” al Cinema Ritrovato 2019
I figli della violenza è un film convintamente progressista, quasi utopico, certamente antifascista. Buñuel indica chiaramente la strada giusta per risolvere un problema universale, argomentando le sue convinzioni e confutando le antitesi, come quella del vecchio cieco che, nostalgico dell’epoca del dittatore Porfirio Diaz, è convinto che l’unico modo per risolvere la situazione sia attraverso l’eliminazione di tutti i giovani malfattori. Proprio per questo Los Olvidados è un film spiazzante, perché attualissimo in una società dove non si parla che di baby gangs e dove riemerge la tentazione di usare metodi giustizialisti e ingiusti.
Cinema Ritrovato 2017: “Bella di giorno”
Già due anni prima di Bella di giorno, nel 1965, Roman Polanski aveva evocato in Repulsion la doppia vita dell’erotismo di Carol – interpretata, non a caso, dalla stessa Deneuve – in un gioco di eco e parallelismi, dove è Buñuel a toccare le più ambigue corde del femmineo. Passando dalla sua più sublime, quasi beatifica manifestazione a quella più sordida e bassa, Bella di giorno ingabbia lo spettatore inizialmente nel piacere onirico dei protagonisti e poi nella brutalità di un eros che sconfina nel grottesco; ma ciò che rende quanto più reale e vicina l’esperienza di Severine è proprio questo: lo sradicamento delle pulsioni, il contrasto tra l’effimero e l’eterno, l’animo e la carne.