La sequenza d'apertura di Delhoreh è speculare a quella de Il cliente, ultimo film del moderno maestro del cinema iraniano Asghar Fahradi: una ruspa cingolata scava nelle viscere millenarie dell'Iran per portare il progresso sulla terra, e da questo atto violento nasce un nuovo mondo fatto di inganni e sopraffazione dove non vi è più spazio per l'innocenza. Il cinema di Samuel Khachikian, maestro e pioniere esiliato in patria, ha il fascino di una reliquia tenuta nascosta per anni agli occhi del mondo e riscoprirlo oggi significa capacitarsi della sua influenza su tanto cinema di genere successivo.
La terrificante vicenda della volitiva Roshanak, tormentata dai fantasmi del passato e dalle minacce del presente, si svolge in una Teheran dal fascino conturbante e minaccioso, una città che nella più classica tradizione noir assume via via contorni oscuri e onirici. L'estro creativo del regista sta tutto in questa sua capacità di deformare lo spazio d'azione dei personaggi conferendo alla storia un'atmosfera claustrofobica in crescendo: l'angoscia che dà il titolo al film è il motore centrale del racconto, e Khachikian la dirige come un direttore d'orchestra grazie a raffinati giochi di luci e ombre e ad un uso impeccabile degli effetti sonori che mettono ancora oggi alla prova i nervi dello spettatore.
Sotto la sua facciata di B movie, Delhoreh riesce anche a dare al pubblico una chiara testimonianza del processo di modernizzazione in atto nell'Iran degli anni Sessanta: le macchine sportive americane dividono le strade con i cammelli, i vecchi villaggi nel deserto vengono rimpiazzati da sfarzosi palazzi moderni per la nuova borghesia, l'aria nuova dell'Occidente cambia completamente il volto della città e con essa l'animo degli iraniani.
Ciò che affascina di più in questo noir al femminile con venature di horror e action movie, tuttavia, sono le evidenti affinità elettive con l'eredità europea e americana del genere ma anche con opere successive in cui si sente l'eco del cinema di Khachikian, nonostante i suoi film non siano mai usciti prima d'oggi dai confini dell'Iran. Se l'impianto figurativo di Delhoreh è diretto debitore delle sperimentazioni visive di maestri come Fritz Lang, l'atmosfera del racconto e i volti dei protagonisti hanno una chiara ascendenza hollywoodiana e trovano i loro principali corrispettivi in registi come Otto Preminger e Robert Siodmak.
La trama del film e la scelta di una protagonista femminile, vittima degli eventi ma mai arrendevole, non può che richiamare alla mente una pietra miliare del thriller come Delitto perfetto di Alfred Hitchcock, ma è soprattutto nel cinema di Dario Argento, uno dei maggiori adepti hitchcockiani, che si ritrovano i punti di forza di Delhoreh, specie nella costruzione emozionale del racconto a discapito della logica narrativa e nell'uso del sonoro come strumento di manipolazione della suspense.
Dopo più di cinquant'anni, Delhoreh e il suo vulcanico regista trovano una seconda giovinezza grazie a un meritato riconoscimento agli occhi del pubblico internazionale ed impone Samuel Khachikian come maestro invisibile della poetica noir, fonte d'ispirazione assente ma mai così presente nel panorama del cinema genere.