Comincia con una richiesta di ringraziamento e di indulgenza per Joan Crawford la proiezione in Piazza Maggiore della versione restaurata di Johnny Guitar. Ringraziamenti, perché fu la più odiata diva di Hollywood ad acquistare i diritti del libro di Roy Chanslor e a proporlo a Nicholas Ray. Indulgenza, perché lavorare con l’attrice fu un vero inferno: il regista disse che “come essere umano, Joan Crawford era una brava attrice”, e il protagonista maschile Sterling Hayden che “non ci sono abbastanza soldi a Hollywood per convincermi a girare ancora un film con Joan Crawford”.

Il risultato di un set tanto difficile è un film che sfugge a qualsiasi classificazione, più melodramma da camera che western, dove anche gli esterni sembrano set di carta pesta, architetture perfette incapaci di sporcare di terra o di sangue il vestito di Joan Crawford, il più bianco della storia del cinema. Dove ogni battuta è una frase lapidaria, di sublime retorica, accompagnata dalle musiche di Victor Young e dal tema composto da Peggy Lee. Un’opera lirica esagerata e barocca, che fa dell’uso dei colori, esaltati dal nuovo restauro digitale realizzato dalla Paramount che ha ristabilito le originali tonalità del Trucolor utilizzato all’epoca dalla Republic, un mezzo espressivo fondamentale nella caratterizzazione dei personaggi e nell’espressione delle loro passioni. Una stilizzazione che avvicina il film al musical, il più melodrammatico dei generi, tanto che l’Emma di Mercedes McCambridge sembra essere portata dal vento come la perfida strega dell’Est de Il mago di Oz.

Leggendario lo scontro tra le due attrici protagoniste, abilmente sfruttato da Ray per rendere palpabile sullo schermo il conflitto che regge l’intera vicenda. Vienna ed Emma, Crawford e McCambridge, sono contrapposte nella più facile delle opposizioni cromatiche, il bianco e il nero. Una semplicità che nasconde però non poche ambiguità. Il personaggio di Vienna non è certo “puro” nel senso tradizionale del termine; la sua è l’onesta di chi non nasconde il proprio passato e le proprie passioni ma le rivendica come baluardo di un’indipendenza conquistata con fatica. Dall’altra parte c’è il personaggio di Emma, a lutto per la perdita e la repressione del proprio cuore, chiusa nel suo amore folle e malato, sublimato in odio e desiderio di vendetta.

Non è strano che la sua sconfitta scateni l’applauso catartico della piazza, visto che è lei a capeggiare la folla inferocita che viene dalla città: avvocati dell’accusa, giudici e boia insieme, espressione di una caccia alle streghe maccartista che non cerca la verità ma solo colpevoli a ogni costo. Il discorso con cui Emma convince gli uomini della città ad arrestare Vienna è quello che finisce in bocca a tutti i professionisti della paura che, allora come oggi, ci mettono in guardia dalle presunte invasioni degli ultracorpi.

La conclusione di questo duello al femminile, combattuto a parole più che con le azioni, è da melodramma verdiano e fa impallidire quella stringatissima de Il trovatore. È incomprensibile che sia il personaggio del pistolero pentito a dare il titolo al film: Johnny Guitar è solo un comprimario, uno dei tanti uomini che nel film si muovono come trascinati dalla corrente dello scontro tra queste due donne, capeggiato da una Joan Crawford che, vista nei primi piani del grande schermo, “è la donna più uomo che abbia mai visto, che ti fa dubitare di esserlo” descritta da uno dei personaggi del film. Aveva ragione Truffaut quando diceva che guardare Johnny Guitar è come guardare la Bella e la bestia, solo che Sterling Hayden è la bella.