Uno dei filoni emergenti all’interno di quest’edizione 2017 del Cinema Ritrovato è l’attenzione per una specifica modalità narrativa che mette una riflessione sulla memoria, sulla storia collettiva e privata, sulla nostalgia e la distanza del tempo tipica dell’opera d’arte: parliamo del found footage, su cui, dopo averne dato conto negli esiti contemporanei di Bill Morrison, ci si interroga rispetto alle origini con una retrospettiva presentata in questi giorni di festival dedicata a Nicole Vedrès (1911-1965).

Figura femminile di riferimento per la cultura cinematografica francese, ha ispirato un’intera generazione di registi, tra cui Alain Resnais (che fu suo assistente di regia), ma anche Marker e Godard, ed ha attraversato in modo poliedrico tutti i media del Novecento, dalla scrittura, al cinema, alla televisione. La riscoperta di un personaggio di questa portata è quindi fondamentale per varie ragioni: per capire un momento fondamentale della storia del cinema e della cultura francese, per interrogarsi sulle modalità attraverso cui l’immagine in movimento riflette su se stessa e sulla nozione di tempo, per ripensare ai ruoli femminili all’interno dei mestieri del cinema.

Tutte queste dimensioni si ritrovano sinteticamente comprese nel primo e più famoso film della regista, Paris 1900 (1946-1948), sulla cui genesi vale la pena soffermarsi brevemente. Il primo contatto di Vedrès con il cinema avvenne attraverso la mediazione della parola scritta e dell’immagine fissa: pubblicò infatti Images du cinéma français (1945), una sorta di storia alternativa del cinema francese attraverso le immagini. Questo testo suscitò l’attenzione del produttore Pierre Braunberger, che commissionò a Vedrès un documentario sul cinema comico francese. Ma durante le fasi di ricerca del materiale, che la regista condusse con l’assistente Resnais, il progetto mutò di forma proprio per volere di lei, e divenne una narrazione collettiva sulla belle époque parigina, compresa fra gli anni 1900-1914.

Lo spirito del tempo ma anche il sentimento del tempo sono i veri protagonisti di quest’opera, che apre una nuova frontiera nell’uso poetico delle immagini in movimento d’archivio. L’epoca d’oro di Parigi viene rappresentata attraverso il ricorso a materiali eterogenei (immagini di repertorio, fotografie, filmati, film di finzione), collegati fra loro da una narrazione affidata ad una voce fuori campo che racconta tanto la storia della città quanto quella delle singole sequenze. C’è già dunque un principio di meta-commento sugli elementi costitutivi del documentario così come della Storia collettiva, una modalità che non dista in fondo da quella che qualche decennio più tardi avrebbe messo in campo Jean-Luc Godard.

Questa capacità riflessiva non è didascalica o pedagogica, bensì lirica e a tratti divertita, come accade soprattutto nella prima parte dedicata alla nuova donna del XX secolo. Qui l’uso poetico di film di finzione raggiunge punte altissime: il filmato di una rappresentazione teatrale di bruchi e farfalle diventa meta-rappresentazione della metamorfosi delle donne verso una nuova femminilità (no al corsetto, sì ai pantaloni), mentre spezzoni di film melodrammatici diventano commento ironico ai discorsi psico-medici del tempo sull’isteria femminile.

Eppure, si avverte già una distanza incolmabile fra quel periodo storico e il “noi” degli spettatori, siano essi quelli del secondo dopoguerra o del XXI secolo. Il sentimento del tempo, quell’impossibilità paradossale di attingere a un’esperienza del passato proprio nel momento in cui esso viene mostrato sullo schermo, percorre tutto il film: i volti noti del periodo (attrici, attori, scultori, pittori, impresari, donne e uomini dell’alta società) attraversano la pellicola in modo fugace, ricordandoci come i meccanismi della Storia possano consacrare alcuni nomi per l’eternità (ad esempio Monet, Renoir, Rodin, Proust) e lasciare che di altri si serbi una memoria solo effimera e contingente.

L’ultima parte dell’opera abbandona una riflessione più squisitamente culturale per affrontare gli eventi convulsi che di lì a poco avrebbero portato allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Se qui il film si fa meno racconto e più documentario storico, è proprio a quest’altezza che si situa l’intuizione filosofica di Vedrès: e cioè quella di considerare il Novecento come un secolo breve, ma non nei termini di Hobsbawn. Il vero spirito di quel XX secolo che la regista ha catturato durerebbe infatti un battito d’ali, coprendo solo i primi quattordici anni, prima che la grande tragedia facesse irruzione del mondo. Gli uomini diretti al fronte che salutano dal treno in lento allontanamento nella scena finale diventano metafora dell’addio di un’epoca che non tornerà mai più, cui solo il cinema ci permette di attingere, con nostalgica malinconia.