Esibizione, nascondimento: l’oscillazione fra questi due poli dà conto del modo contraddittorio in cui il corpo femminile scorre sulle pellicole dei primissimi film muti del cinema delle attrazioni che sono stati proiettati ieri sera in Piazzetta Pasolini da Nikolaus Wostry (Filmarchiv Austria) con un raro esempio di proiettore a manovella, e lo stesso vale per Die Kleine Veronika (1930), introdotto sempre dall’archivista austriaco e proiettato dalla storica lanterna a carbone di Stefano Bognar.

Evanescente e impalpabile, il corpo femminile assume tutte le forme tipiche dell’immaginario culturale della fin de siècle al centro di immagini fragili, in cui il colore apportato sulla pellicola si confonde con il prisma del fascio di luce emesso dal proiettore a manovella, un esemplare di lenti e angolazioni perfetto per i formati del primo decennio del Novecento (e già in disuso a partire dagli anni Venti). E seppur la cifra dominante sia quella di una femminilità che, come è accaduto per gran parte della storia visuale, è prima oggetto (e non soggetto) della visione, tuttavia in questi frammenti del cinema delle origini si avverte l’insinuarsi di un cambiamento, di una potenzialità scopica che investe finalmente anche l’occhio delle donne.

Ne Les Trois phase de la lune (1905) una luna prima di miele, poi di burro, infine di senape mette in scena l’evoluzione di una coppia dalla felicità coniugale al litigio matrimoniale. La figura femminile è quella della classica moglie, in cui vestito borghese ed espressioni facciali dalla comicità grottesca giocano sulle stereotipie della coniuge che da mansueta diventa arcigna e petulante. Eppure, la posizione del corpo, comprimario rispetto a quello del marito, e lo sguardo che non accenna ad abbassarsi sono già primi timidi indizi di un nuovo modo di stare nel mondo.

Se La Fée aux pigeons (1906) recupera il topos fiabesco della fata come strumento puramente ornativo, eppure di grande impatto scenico (meraviglia per gli occhi la levità delle piume di piccione e di pavone, così come il delicato mescolarsi di note cromatiche pastello), gli ultimi due sketch inducono ad una riflessione più compiuta sulla percezione del corpo femminile. Die Zaubereien des Mandarins (1907) è iscrivibile in un luogo interstiziale fra un genere ludico di intrattenimento e la pornografia: un personaggio maschile, vestito all’orientale, fa comparire e scomparire alcune ragazze seminude attraverso un ombrellino di seta. Qui la nudità è pura superficie, pura mostrazione, pura oggettificazione: proprio l’assenza di una benché minima nota voyeuristica (che implicherebbe una visione in qualche modo proibita, trasgressiva, nascosta) fa propendere per un’interpretazione in chiave pornografica, tuttavia quasi svuotata dall’interno della propria carica di desiderio e resa pura patina che si adagia sulla pellicola.

Molto più ambiguo Das eitle Stubenmädchen (1907), in cui una cameriera, intenta a spolverare uno studiolo in cui campeggia una statua raffigurante una giovane donna nuda, inizia un dialogo con il proprio doppio di pietra, sino ad una sorta di identificazione che la porta a spogliarsi interamente e a simularne la posa stessa. L’arrivo del proprietario interrompe bruscamente l’atto liberatorio, e la ragazza scappa impaurita, rincorsa prontamente dal padrone-satiro. Se quest’ultima scena ammicca al desiderio maschile e al motivo imperituro del ratto, tuttavia il denudamento è frutto di una scelta spontanea, consapevole, una volontà di uscita da un ruolo subordinato (quello della serva, caratterizzata da un certo tipo di abbigliamento) ad uno al di fuori degli schemi, per quanto il gesto si carichi anche di un potenziale decisamente perturbante (il tema del doppio, la metamorfosi quasi pigmalionica, lo sguardo medusiforme che pietrifica).

Ma se qui la nudità sembra quindi suggerire una possibilità di affrancamento dal ruolo sociale, non così accade in Die Kleine Veronika, dove l’identità femminile viene narrata attraverso il ricorso ad un paradigma dicotomico: da un lato, la giovane ragazza di campagna, pura e innocente, che corre spensierata in mezzo alla natura; dall’altro, la zia, viennese d’adozione, la cui ricchezza scopriamo presto essere frutto della prostituzione. Il tema della città pervertitrice nei confronti delle donne è tipico di un certo modo attraverso cui il modernismo europeo ha dato conto del complesso processo di emancipazione femminile, e il film lo declina in modo netto, pedagogico, molto (troppo) prevedibile.

Tuttavia, complice anche l’accompagnamento musicale sperimentale e a tratti noise del chitarrista, può essere interessante guardare il film come un piccolo saggio di moda femminile e di costruzione dell’immaginario. Il primo segnale che Veronika riceve dell’imminente viaggio a Vienna è il vestito inviatole dalla zia: un abito bianco, moderno, dalle linee morbide, molto lontano dall’abbigliamento con cui la ragazza arriva in stazione (maglia oversize, gonna scozzese). Sono i vestiti della zia ad affascinare Veronika, le vesti dalle fantasie Art Nouveau, le perle vistose, la biancheria intima raffinata. Il corpo cambia pelle, e questo cambiamento tuttavia allude, per contrasto, alla nudità (mai esibita) cui si allude in continuazione, esperita dalla stessa Veronika, provocando poi nella protagonista un turbamento quasi fatale. Siamo nel 1930, i ruggenti Anni Venti stanno volgendo al termine: e il corpo delle donne è ancora lungi dal non essere fatto oggetto di condizionamenti, di vesti coercitive e di altrettante colpevoli nudità.