Quando pensiamo a film interamente dedicati al desiderio femminile, specialmente omoerotico, difficilmente possiamo immaginare che il primo esempio dati 1931 e si situi nel contesto tedesco tutt’altro che libertario dell’ascesa nazista. Eppure questo è accaduto con Ragazze in uniforme (Mädchen in Uniform), opera prima di Leontine Sagan, tratto dall’opera teatrale di Christa Winsloe, proiettato in questi giorni nella rassegna dedicata a Colette al Cinema Ritrovato 2017 (la scrittrice scrisse i sottotitoli per la versione francese).

Il film venne immediatamente applaudito per la sua perfezione formale fin dalle primissime uscite in sala, per poi essere dimenticato a causa dei regimi totalitari che si instaurarono di lì a poco (la Sagan fu costretta a emigrare, prima in Inghilterra e poi in Sudafrica). Due esempi di apprezzamento su tutti: Lotte Eisner lo ha incluso nei pochissimi film sonori di pregio nella fase di declino del cinema tedesco dei primi anni Trenta, mentre della regia Siegfrid Kracauer ha scritto che è “sicura come il lavoro di un artigiano”, e che “rivela un preciso senso delle forme espressive e dello stile”. Un nuovo interesse venne risvegliato con il remake del 1958 diretto da Géza von Radványi avente per protagonista Romi Schneider, e negli ultimi decenni è stato riscoperto come film di riferimento per la cultura LGBTQI.

L’elemento fondamentale del film è la presenza esclusivamente femminile all’interno di un collegio per ragazze dell’aristocrazia e alta borghesia prussiana (siamo a Potsdam), in cui il gioco fra i generi viene immediatamente messo in scena attraverso una serie di contrasti: le movenze imposte alle giovani collegiali sono infatti quelle “maschili” della marcia militaresca, e la riga ne diventa cifra visiva dominante. Le uniformi, cui le ragazze vengono obbligate a identificarsi (all’arrivo devono abbandonare gli abiti borghesi, e l’ipotesi di uscire in città senza uniforme viene paventata come un’onta), sono a righe bianche e scure, e non possono non richiamare quelle tipiche dei carcerati. E la riga è anche la posa collettiva in cui le studentesse devono trovarsi alla presenza dell’autorità, sia essa quella della direttrice o della principessa che passa in visita ispettiva.

Il tema dell’architettura concentrazionale – che di tale si tratta – viene sviluppato nel corso del film con un tono ora critico ora ironico e giocoso, senza mai cadere in una narrazione troppo assertiva. Le inquadrature iniziali, con un montaggio alternato fra gli scorci di Potsdam e l’esterno del collegio, sono costruite con un rigore formale geometrico, in cui il ricorso ad una prospettiva centrale e all’attenzione per elementi verticali (il campanile, le statue) già introducono alla caratterizzazione degli interni. Qui gli spazi si richiudono in forme asfissianti (come la ripetuta inquadratura dall’alto delle scale su cui si affacciano le ragazze), e dormitori e spogliatoi imporrebbero una rigida suddivisione.

Eppure, a ribaltare questa precisione organizzativa ci pensano proprio le ragazze, colte spesso in movimenti convulsi, di corsa, di gioco, di convivialità (una su tutte, la performance teatrale), in cui appaiono come tante schegge impazzite pronte a far saltare il sistema. C’è lo spazio per una ribellione divertita e divertente, incarnata dal personaggio di Ilse, che scatena le compagne, le invita a boicottare gli ordini ricevuti, ma sa anche creare il giusto spirito di gruppo necessario alla lotta contro la prevaricazione autoritaria.

Ma ancor più sovversivo è il lirismo che scaturisce dalle inquadrature dedicate alle giovani colte in atteggiamenti di tenerezza (coppie per mano o abbracciate), sino alla poeticità dell’amore che Manuela, la protagonista ultima arrivata in collegio, inizia a nutrire per una delle insegnanti, Fräulein von Bernburg, l’unica a farsi portatrice di un principio di empatia e sincero interessamento all’interno del corpo docente.

Il rapporto fra le due donne non assume mai un carattere morboso o voyeuristico, tipico del male gaze, e proprio in questo sta l’importanza del film come prima opera cinematografica apertamente lesbica: la nascita e crescita del sentimento viene connotata da primi piani sfumati, soffusi, in cui l’elemento attrattivo-sentimentale passa prima di tutto attraverso occhi resi eterei e sognanti, come accade nella scena del bacio fra le due. Nel climax, in cui Manuela, disperata per la punizione inflittale dalla direttrice a causa dell’esternazione del suo sentimento, tenta il suicidio, la sovrapposizione del suo volto a quello dell’insegnante segna il suggello dell’accettazione finale e totale dell’amore, e prepara la rivincita delle ragazze sull’astrusità dell’educazione militaresca e patriarcale (figlie di soldati addestrate per diventare madri di soldati): a questo vale la scena finale, in cui, quasi fosse un’anticipazione di quella de Gli uccelli di Hitchcock, le giovani donne appollaiate sulle scale guardano torve sfilare l’anziana despota sconfitta, che si ritira lentamente e silenziosamente nell’oblio.