La seconda guerra civile americana, che non sorprenderebbe veder cominciare dopo le presidenziali USA di fine anno, anticipata come lo è stata dall’assalto al Campidoglio del 2021, nel Civil War dell’inglese Alex Garland è agli ultimi letterali fuochi.

Non sappiamo quando è iniziata né i motivi dell’inedita alleanza fra i secessionisti Florida, Texas e California, ma è manifesto che gli Stati (dis)Uniti d’America vi siano giunti avendo in sella un presidente tanto bugiardo, impreparato e spaventevole che si farebbe torto sia a lui sia a Trump nel non scorgervi dietro il facinoroso magnate newyorkese.

“The Donald” di Civil War, forse democratico, forse repubblicano, è al terzo mandato consecutivo come F.D. Roosevelt, a differenza dell’esimio predecessore in aperta violazione però alla norma costituzionale del limite massimo di due. Su tale autocratica scia, ha da tempo sciolto l’FBI, ordinato raid aerei sui civili degli stati insorti e si nega da più di un anno alle domande dei giornalisti.

Quattro di loro, in un gruppo contaminato fatto, a guardarlo dalle sue diverse angolazioni, di due uomini e due donne, di un anziano nero e tre giovani bianchi, di una sorella maggiore e una minore e un padre e un figlio, di due scrittori e due fotografe, coprono in auto la tratta da New York a Washington per documentare in immagini strade e contee in guerra, e ottenere infine l’intervista al Presidente.

Sulle ceneri della democrazia americana e dell’ordine mondiale di cui quella democrazia, esportata urbi et orbi a suon di guerre per procura, è il perno al tramonto, il conto alla rovescia di quei 400 chilometri si mostra familiare, perché Garland lo disegna, in un crescendo ansiogeno e cupo, saccheggiando l’immaginario alimentato da tanti suoi colleghi statunitensi per i film di zombie e catastrofi post-atomiche. Quel che è nuovo nel suo lavoro non-distopico solo perché già in essere è l’aggirarsi per strade e cittadine di lupi solitari consanguinei ma ostili, minacciosi quando non mortali, chi in pericolo per professione, ma su suolo natìo, a casa, e chi invece armato per uccidere il nemico, chiunque sia.

Se l’arrivo dei nostri alla base delle forze occidentali a Washington si svolge sotto l’egida degli elicotteri di Apocalypse Now, è soprattutto al Kubrick di Full Metal Jacket che Garland paga la maggiore riverenza. Apertamente scomodato nell’immagine della fossa comune in cui cade la ventitreenne Jessie e nell’assedio militare alla Casa Bianca con fotografi al seguito, debitore della sequenza sulle note beffarde di Surfing Bird in cui i reporter filmano i marines in Vietnam, è anche nella deformazione disumanizzata dei volti dei giornalisti che Garland si ispira a Kubrick e ai suoi soldati variamente sfigurati ed esaltati - le due cose vanno insieme dopo il punto di non ritorno - dall’orrore di quanto visto e fatto.

Che siano Vietcong, terroristi islamici, concittadini civili o presidenti, quando i caduti diventano prede, come accade in guerra così come nel documentarla, rughe, sorrisi, rigurgiti e paralisi si fanno indecifrabili e aprono a plurime interpretazioni sulla natura umana e sul futuro che questa è in grado di desiderare e costruire. E l’interpretazione di Garland, pur non definitiva, non prelude alle magnifiche sorti e progressive.