Il concetto di cibo è spesso ricollegato a quel caotico mondo di idee dove la carnalità, il ventre e la peccaminosa ricerca dell’edonismo, mescolandosi, regnano incontrastati. Alimentarsi diviene un rito nel quale si accoglie all’interno del corpo l’altro da sé, lo straniero all’interno del proprio spazio domestico: un’invasione che contamina e corrompe la naturale purezza umana. Questo il leitmotiv rintracciabile all’interno di Club Zero, film targato BBC segnante il ritorno cinematografico di Mia Wasikowska dopo l’addio allo star system hollywoodiano. 

Altamente didascalico quanto metaforico, il prodotto si muove all’interno di un ambiente delimitato da tavoli, ponendo sempre al centro la dimensione conviviale, che si tratti di una famiglia riunita per i pasti, di gruppi di studenti alla mensa scolastica o delle lezioni dai tratti esoterici della professoressa Novak, esperta di educazione alimentare all’interno di un istituto superiore. La docente sfrutterà i punti di debolezza presenti all’interno delle diverse situazioni familiari, esperite dagli studenti, per piegare le loro menti ai principi della biodieta, conducendoli verso l’oscuro vortice del Club Zero, ovvero convincendoli dell’esistenza di un’associazione mondiale segreta composta da individui praticanti l’astinenza alimentare.

L’enfasi sulla collettività è data dal costante ricorso a lunghi ed interminabili dialoghi sulle tendenze nutritive contemporanee e dall’assenza di individualità nei personaggi: i genitori e la pseudo-setta, capitanata dalla Novak, rappresentano le due polarità di pensiero che si scontrano in una lotta divisa tra il mondo ideale, promesso dalle garanzie spirituali della controversa docente e il più autentico istinto di autoconservazione umana, percepito naturalmente dalle famiglie dei ragazzi.  

Facendo leva sulle patologie preesistenti degli studenti, la professoressa Novak forgia una nuova ritualità condivisa dall’intero gruppo, nel quotidiano rapporto con il cibo, lasciando spazio a soluzioni rappresentative estremamente grottesche legate ad anoressia, bulimia e diabete. Le passioni, il talento e i legami affettivi divengono mere aspettative sociali che distolgono gli adepti dall’ossessiva ricerca di un’armonia massonica, scandita dal ritmo di un mantra e minacciata dal rumore artificioso di un coltello elettrico per carni.

Il lungometraggio riflette, attraverso un registro a tratti ironico, sui due volti dell’alimentazione consapevole: iniziando dall’impatto ambientale, dal consumo di cibi non confezionati, dai benefici psicofisici del mangiar sano masticando lentamente e controllando la respirazione fino all’esasperazione, si raggiunge un climax attraverso i sistemi radicali della paleo dieta, dell’alimentazione pranica, fino all’abuso del meccanismo di autofagia.

Le ferme convinzioni dei membri della setta in lotta contro il consumismo si manifestano nella loro incoerenza e ipocrisia per mezzo dello spreco alimentare, generato dal rifiuto del cibo preparato per loro all’interno del contesto domestico o dell’istituzione scolastica, e con la celebrazione del Natale, festività chiave per il marketing globale, non curanti di indossare vestiti fast fashion altamente inquinanti e di arredare le proprie camere con molteplici oggetti in plastica.

Attraverso questa impalcatura, il film trova modo di creare una non troppo celata satira contro i guru alimentari del nostro millennio, costantemente impegnati nell’incentivazione all’ortoressia e alla bigoressia, nella speranza di un tornaconto economico attraverso la vendita di integratori e prodotti fintamente biologici, rappresentati all’estremo dalla sponsorizzazione del tè di produzione Novak.

Seppur lodevole negli intenti, il risultato finale è alquanto debole, nelle soluzioni di trama, nel finale inconcludente e nella totale assenza di personalità e coscienziosità dei protagonisti, i quali si riducono, senza delle forti motivazioni, ad automi controllati dalla volontà di un’istitutrice appena conosciuta. Inoltre, si rileva un’occasione persa nel declinare il tema alimentare in rapporto con la sessualità, dualismo estremamente interessante considerato da altri prodotti riguardanti i disturbi alimentari, come la possibilità di approfondire in modo più diretto il conflitto intergenerazionale e il legame tra cibo e società.

Jessica Hausner imbandisce un dramma alquanto piatto nonostante le infinite potenzialità, almeno nelle premesse, di una storia caratterizzata da un ricercato senso di mistero ed esoterismo: non evolvendo nel sapore, Club Zero riesce a lasciar a bocca asciutta anche i suoi spettatori.