Come nell’andirivieni prospettico de Il bar delle Folies-Bergère di Manet in cui la realtà allo specchio si scompone, rifrangendosi in un vertiginoso complesso di punti di vista, c’è un momento, in Cold War, in cui Zula e Viktor entrano in contatto solo osservandosi e questo graduale disvelarsi del sentimento (e subito della passione) lo vediamo riflettersi in uno specchio: nella folla scrosciante si staglia lei, dal totale si passa a un sostenuto campo – controcampo dove il movimento è rilassato, lento, già però con qualche palpito irrequieto. Attraverso questo stratagemma, Paweł Pawlikowski ci introduce nei cortocircuiti mentali ed emotivi dei protagonisti e nello stesso tempo all’interno del ruolo che l’immagine ha – e a cui adempierà fino all’ultimo momento del film - nella loro messa a fuoco, dovendo renderne tutta la convulsione ("La bellezza sarà convulsa o non sarà...") e il desiderio emorragici, logori di tutto l’amore consumato.

Viktor e Zula si inseguono per venticinque anni tra Berlino, la Polonia e Parigi durante gli anni della Guerra Fredda e la macchina da presa a sua volta li pedina nel loro moto ondivago, mai compiuto o fermo, contro il cui tempo impietoso l’immagine rappresenta l’ultima linea di difesa. Di difesa contro il "panorama scheletrico" di una realtà ormai crepuscolare, che non a caso Pawlikowski sceglie di filtrare, opacizzare, nel bianco e nero, traslucido e bressoniano, tanto più se pensiamo a certe sequenze di ambientazione naturale, di simbiosi panica tra il pulsare incessante e innamorato dei loro cuori e quello della natura, che in Cold War si presenta in una duplice sembianza, di uno spazio anche mortifero.

Sullo sfondo di un’Europa in smarrimento imminente, i personaggi sono chiamati a interrogarsi sulla propria identità, divenuti esuli e ospiti in terre non natie - la musica popolare come suggello identitario, pur assumendo, nel corso della storia, sempre più l’aspetto di un simulacro, un fantasma da esorcizzare facendo sì che diventi spettacolo, e prestandosi, quindi, alle stesse leggi da cui ci si voleva divincolare. Viktor e Zula sono la contrazione di un nomadismo capillare, di un sentirsi perennemente apolide in una società al tramonto (Vox Lux di Brady Corbet, o anche Sunset di Laslo Nemes potrebbero essere traduzioni in due chiavi storicamente differenti dello stesso concetto, di una conciliazione impossibile tra il soggetto, i propri slanci e le proprie ambizioni e la realtà con tutte le sue strutture e sovrastrutture) e per questo non ci sarà patria neanche per il loro amore: costretti a transitare come i rifugiati di Transit di Christian Petzold, attanagliati in limbi di ricerche, attese e speranze che quasi mai si realizzano.

E di questa relazione amorosa nomade in uno spazio e tempo in costante bilico, Pawlikowski ci restituisce i frammenti, frammenti fisici, di corpi e vite che cambiano, di un’idea iniziale, da parte del protagonista – quella della musica popolare – perduta, brandelli di un’espressione amorosa impossibile e declinata in chiave melodrammatica, nel genere dello scarto e delle distanze incolmabili.

"Immobile presso a me io la sentivo divenire lontana e straniera mentre il suo fascino si approfondiva sotto la frangia notturna dei suoi capelli. Si mosse. Ed io sentii con una punta d’amarezza tosto consolata che mai più le sarei stata vicino. La seguii dunque come si segue un sogno che si ama vano: così eravamo divenuti a un tratto lontani e stranieri dopo lo strepito della festa, davanti al panorama scheletrico del mondo". Dino Campana, Canti Orfici.