“Come hanno potuto fare un film da un romanzo di Pynchon?”. Citando la celebre tagline di Lolita, questa sembrava essere – almeno in parte, la questione appena quattro anni fa, quando l’adattamento di Vizio di forma firmato da Paul Thomas Anderson esordiva nei cinema. Oggi, a pochi mesi di distanza dall’uscita de Il filo nascosto, siamo certi che nessun altro avrebbe potuto tentare l’impresa di tuffarsi liberamente nell’universo pynchoniano, così vacuo ma allo stesso tempo talmente intrigante da suscitare un indicibile fascino.

Dopotutto se pensiamo alla complessità del cinema di Paul Thomas Anderson emerge un seducente complesso di elementi (de)strutturati a mo’ di scatole cinesi; una specie di metafora dell’inafferrabilità del senso ultimo delle cose, che poi è una delle grandi tematiche della letteratura di Thomas Pynchon il quale ha fatto del mistero della sua persona una delle chiavi del proprio mito.

Motivo per cui si potrebbe considerare il cinema di Paul Thomas Anderson come un collage infinito di metafore e richiami interni a significanti che, non necessariamente, hanno un significato; una di queste suggestioni è presente anche nella colonna sonora de Il filo nascosto, in cui una delle tracce di Jonny Greenwood porta il nome di un dettaglio presente in Vizio di forma: Puck’s Beaverton Tattoo. Un particolare, quello del “tatuaggio di Puck Beaverton che pulsava”, che sembra suggerire ancora una volta quella tendenza tipicamente postmoderna che Paul Thomas Anderson, tra l’altro ex studente di David Foster Wallace, ha fatto propria mettendo a punto uno stile narrativo che punta al disorientamento.

Qualcosa che il regista, da gran cinefilo quale è, aveva già esplorato in Magnolia, rifacendosi anche alla poetica di Altman e a quell’attrazione suscitata dalla decadenza di Los Angeles, ma che in Vizio di forma esplode sfruttando la materia prima di matrice pynchoniana come punto di partenza per raccontare una storia perfettamente coerente con una personale visione del cinema. Basti pensare a Sortilege, la cui voce demiurgica off-screen sposta il topos tipico dell’hard-boiled dal protagonista maschile a un personaggio femminile non protagonista; una voce che, ancora una volta, ricorda il narratore che, nell’incipit di Magnolia, sosteneva la non casualità di certe coincidenze.

In questo senso, la colonna sonora di Vizio di forma esprime la stessa vacuità e confusione di cui pulsano le assolate strade di Los Angeles. Infatti mentre dal punto di vista tematico e visivo il film ricorda molto un’altra opera di Altman, Il lungo addio, se ne discosta sul fronte musicale; qui l’alienante tema principale lascia spazio a una colonna sonora frammentata in cui le composizioni di Jonny Greenwood si alternano a pezzi non originali, con un montaggio sonoro che sfrutta le potenzialità della musica extradiegetica: basti pensare alle nebbiose The Golden Fang e Meeting Crocker Fenway.

Nella colonna sonora sono presenti inoltre ben tre pezzi strutturati sullo stesso tema musicale, tutti dedicati alla donna amata dal protagonista (Shasta, Shasta Fay, Shasta Fay Hepworth), che non diventano soltanto metafora di femminino carico di mistero – altra grande tematica nel cinema di Anderson, ma anche omaggio alle composizioni con archi tipiche della Hollywood classica e del cinema hard-boiled. Inoltre pezzi come Vitamin C, Any Day Now e Journey Through the Past completano e contestualizzano storicamente una narrazione frammentata quanto ricca. Motivo per cui pur essendo ridondante e solo in apparenza incoerente, Vizio di forma suggerisce l’idea che il cinema stesso di Paul Thomas Anderson sia contraddistinto da un similare e misterioso vizio intrinseco.

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