L’esordio alla regia di Lay Jin Ong, Come fratelli - Abang e Adik,  propone uno spaccato sulle iniquità sopportate silenziosamente dai malaysiani più poveri, facendo perno sulla solidarietà fra reietti. Adik e Abang sono due apolidi cresciuti per strada, privi di genitori e riconoscimento legale.

Il primo possiede solo un documento di nascita mentre il secondo, sordomuto, neppure quello. Tolta Money, una donna transessuale che si è presa cura di loro da bambini, non hanno che il reciproco affetto per sopravvivere giorno dopo giorno in una povertà obbligata. Abang lavora in nero al Pasar Besar, il più grande mercato all’aperto di Kuala Lumpur, e spera di poter ottenere riconoscimento legale grazie all’aiuto di una volontaria, Jia En. Adik non è altrettanto integrato, se ne frega di migliorare la sua condizione e preferisce campare di truffe e prostituendosi piuttosto che lasciare Abang.

Il primo atto presenta il rapporto simbiotico fra i due e con lo spazio che abitano: Pudu. Questo è uno dei quartieri più poveri della capitale, i cui colori sgargianti malcelano l’estrema sciatteria edilizia tristemente comune a diverse metropoli asiatiche in frenetico sviluppo. È anche un crocevia di esclusi, un denso melting pot di rifugiati politici birmani, immigrati bengalesi e via dicendo, il piano terra di una scalata sociale improbabile. L’assenza di un sistema di welfare si manifesta implicitamente, come molti elementi del film, con la presenza di Jia En come unica fonte di assistenza.

Jin Ong presenta un microcosmo solidale e apparentemente fin troppo pacato, come se il reciproco sostegno placasse una giustificata rabbia sociale. La critica al sistema malaysiano è spesso esplicita e punteggia tutta l’opera, ma non si traduce mai in proattività o indignazione. La fotografia e la regia lavorano poi per restiruire un forte effetto estetizzante, deprivando la povertà degli ambienti dal degrado che ci si aspetterebbe. Fa storcere il naso vedere uno tra i quartieri più poveri di Kuala Lumpur, in un contesto in cui i più fragili sono sistematicamente abbandonati, senza che ci sia un accenno di violenza, uno scippo, un luogo di spaccio, disprezzo verso le forze dell’ordine, anche solo rumore di urla o vetri rotti nella notte.

Implausibile, considerando anche che il tasso di criminalità nazionale è circa 50, perlopiù piccoli reati ma comunque un indice alto per la sesta economia del sud-est asiatico. Ong Jin punta tutto sul sentimento e quindi, forse nel tentativo di nobilitare i suoi personaggi, sacrifica un lato consistente del mondo diegetico che intende mostrare, affievolendo l’incisività della sua critica. Dopo un lungo primo atto, la focalizzazione del racconto si sbilancia verso Abang e tutta la sofferenza che ha dovuto fisiologicamente tacere esplode magnificamente durante un colloquio con un monaco buddista, decisamente la scena più intensa e brutalmente schietta di tutto il film.

Mantenendo sempre l’attenzione su rabbie sopite e amori esplicitati, l’autore riprende il tema della famiglia alternativa, caro alla cinematografia asiatica, basti pensare a Kore’eda. Come per il cineasta giapponese, anche in Come fratelli - Abang e Adik sono i personaggi e non la biologia a decidere i rapporti famigliari: in primis i due protagonisti, uniti da un legame fraterno che in diverse occasioni sfiora volutamente l’omoerotismo, così come Jia En, che trascura la sua vera parentela per dedicarsi ai bisognosi. Spicca poi Money, la caregiver benvoluta da tutti, dal passato indefinito ma certamente sofferto, personaggio simile alla protagonista di Miss Andy, prodotto dallo stesso Ong Jin.

Timidamente fa capolino anche la questione etnico-religiosa, quando vengono mostrati gli asettici uffici della pubblica amministrazione dominati da malesi musulmani, o la classe media di cino-malesi cristiani. Tra le moltissime suggestioni visive, la più eloquentemente taciuta è la ripetuta inquadratura degli immensi grattacieli della zona ricca di Kuala Lumpur, visibili da Pudu, che con la loro cinica indifferenza sovrastano i personaggi e li ammaliano col miraggio di una vita a loro preclusa.

C’è molta tecnica e altrettanto sentimento in questo brillante esordio, e rimane la speranza che in futuro Ong Jin, come il suo Abang, sfoghi la rabbia fin qui taciuta.