“E tutto il mio essere usciva rapidamente da me e sentivo d'essere morto, e insieme che era uno sbaglio credere d'essere morto”. Ernest Hemingway, Addio alle armi

Nell’ambito delle celebrazioni della Grande Guerra l’Istituto Luce –Cinecittà ha prodotto Come vincere la guerra di Roland Sejko, un documentario dedicato alla rappresentazione del primo conflitto mondiale dal punto di vista americano. Partendo da filmati d’archivio del Nara (National Archives and Records Administration) e della Library of Congress, Sejko ci riconsegna una particolare visione degli ultimi anni del conflitto, a partire dalla dichiarazione di guerra degli Stati Uniti alla Germania nell’aprile 1917.

Dopo anni di tentativi di tenere gli Stati Uniti al di fuori del conflitto mondiale, il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson doveva giustificare la nuova linea d’azione, proponendo l’immagine di un intervento breve e risolutore. D’altra parte conosceva molto bene i meccanismi della comunicazione: la partecipazione americana andava giustificata e amplificata dall’uso di immagini, bandiere, manifesti, canzoni, film. L’America si preparava ad entrare in guerra con un esercito di 2 milioni di uomini che sarebbero intervenuti sul fronte occidentale, là dove i soldati europei erano provati già da anni di combattimenti. In Italia sarebbero arrivati solo poche migliaia di uomini, per esattezza solo il 332° Battaglione di Fanteria che aveva il compito di sfilare creando l’illusione dell’arrivo di altri battaglioni. Battaglioni che non sarebbero arrivati mai.

Mentre scorrono le immagini dei soldati al fronte che battono in ritirata durante la disfatta di Caporetto vediamo i loro occhi che guardano in macchina. Nello scenario di guerra è subentrato un nuovo protagonista: l’operatore. Ai fini narrativi puntare la telecamera diventa un gesto potente quanto puntare un fucile. E se questo concetto nel 1917 non era ancora chiaro in Europa, era chiarissimo in America. Ai soldati europei sfiniti, immersi da anni nel fango, lacerati nel corpo e nella mente, veniva portata la motivazione psicologica necessaria per non arrendersi; ai cittadini perlopiù disinformati veniva data un’immagine rassicurante e positiva dei soldati: puliti, sani, sorridenti, ordinati.

La documentazione per immagini fatta dagli americani appare quindi completamente diversa da quella europea, fondamentalmente perché l’esigenza degli americani non era quella di ricostruire la realtà di un evento ma di darne una narrazione precisa, pubblicizzandolo.

Roland Sejko, regista di origine albanese e autore di Anija – La Nave (miglior documentario ai David di Donatello 2013), sceglie di raccontare questa narrazione di guerra attraverso una selezione di immagini più simboliche che didascaliche: un ragazzo di spalle che guarda partire le navi da guerra dal molo di New York, un cavallo che affonda nella neve sul fronte occidentale, i soldati americani che si allenano alla guerra come ad un allenamento sportivo, un soldato che si rotola su materassini di gomma mimando azioni di guerra nei minimi dettagli. E le immagini vengono accompagnate dalle voci vive del tempo, da brani di scrittori, registi e giornalisti dell’epoca: Ernest Hemingway, David W. Griffith, Antonio Gramsci.

Ma al di là di qualsiasi volontà di rappresentazione, sappiamo che circa 10 milioni di soldati persero la vita, di cui moltissimi europei e oltre 100.000 americani. E sono proprio le parole di un soldato americano volontario che vede morire un compagno di guerra italiano a chiudere il film di Sejko. Un soldato che sarebbe poi diventato uno dei grandi scrittori del ‘900, quell’Ernest Hemingway che nel suo Addio alle armi racconta una storia di guerra, di amore e di morte. “C'era melma intorno a me, e le stelle dei proiettili salivano e scoppiavano e galleggiavano in cielo con una luce bianca, e vedevo salire razzi, udivo le bombe. E poi udii appena in fondo al mio corpo: - Mamma mia! Oh mamma mia!

Mi stirai, mi contorsi, e finalmente riuscii a liberare le gambe, a girarmi e arrivai a toccare quello che si lamentava. Era Passini, quando lo toccai urlò. Teneva le gambe rivolte verso me e negli squarci luminosi le vidi sfracellate sopra il ginocchio. Una era già staccata. L'altra era trattenuta solo dai tendini e dai brandelli dell'uniforme, e il moncone strappava per conto suo, vibrava come un corpo a sé. Passini si mordeva il braccio e gemeva.

- Oh mamma mia, mamma mia - poi - Dio ti salvi, Maria, Dio ti salvi, Maria. Oh Gesù fammi morire. Mamma mia, mamma mia. Oh purissima adorata Vergine Maria, fammi morire. Basta. Basta. Oh Gesù, Vergine cara, basta. Oh, oh, oh - poi rantolando - Mamma, mamma mia. E poi tacque, col braccio tra i denti, mentre il moncone vibrava ancora”.