Siamo tutti convinti di conoscere Alberto Sordi, non fosse altro per la determinante incidenza sull’immaginario collettivo, per la frequenza con cui rivediamo i suoi film, per l’affetto di alcuni estimatori rassicurati dallo specchio deformato pari solo al disprezzo di altri modellato sulla superficie della filippica di Nanni Moretti. E tuttavia tendiamo sempre a ricordarlo quasi solo per il ritratto dell’italiano medio, certo la sua operazione più importante specialmente nell’ambito della nostra stagione di massima gloria. A cent’anni dalla nascita la retorica rincorre il ricordo, immemore dello spirito di Rodolfo Sonego (il “cervello” di Sordi), e la pigrizia dell’omaggio, come sempre modulato sulle marcette di Piero Piccioni (il “corpo” di Sordi), si accompagna al burocratico disbrigo della celebrazione fine a se stesso.
Consapevolmente auto-monumentalizzatosi con il contributo di ammiratori improvvisatisi esegeti, Sordi meriterebbe post mortem una riscoperta. Un paradosso, verrebbe da dire: è ancora percepito come l’attore della nazione, la maschera sfuggente di un preciso momento della nostra storia e testimone di un eterno, complesso, comunissimo sistema di pensiero fatto di paura ed euforia, diffidenza e curiosità. Un democristiano quintessenziale nella misura in cui può rivelarsi imprevisto uomo del popolo (l’aneddoto più volte ripetuto del commosso abbraccio con Togliatti dopo la prima del capolavoro Una vita difficile) e al contempo l’ex balilla che tutto sommato rimpiange “quando c’era lui”. Quel “lui” che avrebbe voluto interpretare in una fantasia domestica, vittima degli sganascioni di donna Rachele: un progetto abortito per lo scandalo provocato da qualche provvida anticipazione, ma che porta i segni di una follia piena di metodo.
Di questo borghese romano interclassista, cattolico osservante che salvaguarda la tradizione ma pienamente calato nell’euforia del boom, si dimentica spesso la prorompente carica futurista espressa attraverso la spudoratezza di (r)innovare il modo stesso di recitare. Un cavallo pazzo disposto ad accettare qualsivoglia follia pur di spaccare il vetro delle convenzioni. Sì, d’accordo, sono elementi che vediamo in tutta la spettacolare galleria di personaggi sgradevoli (spesso mal compresi) con i quali instauriamo un rapporto di spaventosa empatia convinti di essere diversi se non migliori.
Eppure ha ragione Carlo Verdone (dai più definito senza fantasia l’erede ma in realtà sideralmente opposto al tipo umano incarnato dal maestro) quando dice che il Sordi migliore è quello in bianco e nero degli anni Cinquanta: un rivoluzionario capace di una recitazione anti-accademica, tutta istinto e pazzia, che faceva cose che oggi nessuno s’azzarderebbe nemmeno di pensare. Tutto Sordi, in fondo, è già nel dittico felliniano formato da Lo sceicco bianco e I vitelloni: due versioni della stessa maschera di pavido e istrionico, codardo e malinconico, cinico e cialtrone, con cui, tra infinite e logiche varianti, l’attore ha lavorato per tutta la vita. Sordi non cerca mai la compassione, non è mai indulgente con i suoi mostri, non ha mai pietà, capisce che l’unico modo per amarli e farli amare è proporli sotto la luce peggiore.
Qualcosa, dopo le meraviglie dei Sessanta, cambia, sia per il disastroso passaggio alla regia sia perché, alla prova dei ruoli paterni, si ritrova a riporre verso di loro quell’indulgenza un tempo evitata come la peste (“pussa via!” avrebbe detto). Quando invecchia (male), Sordi scaglia il disprezzo contro i figli scrocconi, grassi, inetti, irriconoscenti. In Sordi non c’è evoluzione: si dice spesso che Un borghese piccolo piccolo sia la pietra tombale della commedia all’italiana, ma è un discorso che vale in modo particolare per la carriera di Sordi. Non esiste futuro dopo il Borghese, I nuovi mostri e L’ingorgo, c’è solo lo spazio per la (auto)mitologia (Il marchese del Grillo) e per ribadire la perduta aderenza al tessuto umano dell’Italia ormai vista solo dalle finestre della villa-mausoleo-prigione-santuario alle Terme di Caracalla.
Di Sordi, dunque, andrebbero rispolverate certe chicche anarchiche e spietate degli anni Cinquanta che mettono in risalto la selvaggia, animalesca, razionalissima capacità di intercettare l’interferenza tra ragione e follia. Prendiamo il venditore di bolle di sapone di Accadde al commissariato, che viene segnalato alle autorità perché indossa una gonna al posto dei pantaloni. Perché lo fa? Genio del marketing? Forse. Un pazzo? Potrebbe. Si rende conto delle conseguenze? Diciamo di sì. C’è altro? Probabilmente no. Quello che volete, ma Sordi col gonnellino è un’immagine incredibile e dirompente.
Oppure l’industriale rigido e trombone di Domenica è sempre domenica: tra il narcisismo dei mediocri di successo e la schizofrenia dei frustrati abituati a vincere sempre, Sordi chiede la raccomandazione all’ex commilitone Achille Togliani per partecipare a Il musichiere. Guardate come lo fissa con la tensione omo-erotica dei provinciali suggestionati dai divi, scopritene la teledipendenza ante litteram o la competitività fino alla cattiveria. Una crudeltà già esplosa nel pazzesco Piccola posta, dove vuole ammazzare le vecchiette del suo ospizio per impossessarsi dei loro patrimoni. Per della sfilata di logorroici, antipatici, petulanti bamboccioni, emanazioni ed evoluzioni del compagnuccio della parrocchietta, dall’insegnante aspirante pigmalione di Bravissimo! al vicino scocciatore di Via Padova 46, passando per i parricidi per sfinimento Mi permette babbo? (un bel braccio di ferro con Aldo Fabrizi) e Totò e i re di Roma (dove coraggiosamente sottomette il principe dei comici).
E come tralasciare i due ruoli per Vittorio De Sica, l’abominevole venditore di bambini del Giudizio universale e l’imprenditore pronto a vendere un occhio in Il boom? E, ancora, lo scatto danzante ripreso dal basso da Dino Risi in Il segno di Venere, la sterminata antologia di melliflui “ciao caro”, i momenti da ubriaco sempre credibili (da I vitelloni ad Accadde al penitenziario), la violenza del megalomane conte di Arrivano i dollari!. Siamo convinti di conoscere Sordi perché amiamo e ameremo ancora La grande guerra, Tutti a casa, Il medico della mutua; ma ci sono pezzi meno esposti, come Il commissario, Il maestro di Vigevano, La più bella serata della mia vita, che aspettano solo di essere rispolverati. Ecco, basta un minimo sforzo oltre i capolavori più famosi per (ri)scoprire un attore inesauribile e perfino segreto.