È un documentario sconvolgente, Cortile Cascino: commissionato dalla NBC, risultò troppo crudo persino per i committenti e ne fu ordinata la distruzione. Fortunatamente un coscienzioso dipendente della rete ne salvò una copia ora di proprietà della Cinémathèque française e dopo varie traversìe possiamo oggi godere di quest’opera firmata dal documentarista Michael Roemer in co-regia con Robert M. Young, che era all’epoca dipendente della NBC e venne licenziato dopo che i dirigenti ebbero visionato il film.

Cosa vi fosse in Cortile Cascino di così insopportabile allo sguardo sarà chiaro tra poco, non appena ve ne avremo data una panoramica. Cosa invece si aspettassero di ottenere questi committenti inviando in Sicilia un film-maker indipendente e un regista/direttore della fotografia che avevano alle spalle poco più che qualche educational film, resta alle nostre supposizioni.

Fatto sta che questo “ritratto antropologico” di una specie di villaggio a cavallo del tratto di ferrovia che collegava Palermo a Trapani, popolato da circa mille abitanti che si dividevano una sola fonte d’acqua, è ancora oggi disturbante perché rivelatore dello stato di indigenza, di miseria e di abbandono in cui versava parte della popolazione dell’Italia meridionale ancora all’inizio degli anni Sessanta. Il film è incorniciato da due sequenze che mostrano un treno, la prima in arrivo e la seconda in partenza, a simboleggiare l’estraneità dello sguardo che questo documentario porta con sé fin dalla sua genesi.

A Cortile Cascino si moriva di fame, i bambini grattavano la calce dai muri per avere qualcosa da mangiare, le donne si prostituivano per sostenere la famiglia, la criminalità era all’ordine del giorno e il lavoro minorile era la normalità. Le scene di questa quotidianità sono osservate da un occhio esterno, che non appartiene al mondo narrato ma che proprio per questo lascia allo spettatore l’imbarazzo di stupirsi, di provare orrore, raccapriccio, pietà di fronte all’abbattimento di un maiale, alle piccole bare coperte di fiori accatastate su un furgoncino o agli struggenti primi piani di uomini, donne e bambini dimenticati dal mondo.

La potenza del film – oltre a quella lampante delle immagini che parlano da sole nonostante la voice over del commento imposto dalla NBC – è il graduale slittamento da documentario etnografico a strumento di denuncia, man mano che ci si addentra nella vita dei protagonisti che “quando possibile” (cit.) raccontano le loro condizioni con la propria voce. Una denuncia che non si limita ad accusare implicitamente lo Stato per la completa carenza di servizi o di assistenza (presenti infatti unicamente per iniziative del tutto personali di straordinari personaggi quali Danilo Dolci o Goffredo Fofi, che lì avviarono una sorta di campo assistenziale) ma espone esplicitamente e pubblicamente la mafia come diretta responsabile della situazione stagnante.

Il potere mafioso, in pieno controllo di ogni minima attività che coinvolgesse il denaro (dai mercati di carne, pesce, frutta e verdura ai macelli, fino alle concessioni per i funerali e i cimiteri), viene evocato come qualcosa che pervade la vita di Cortile e gli animi dei suoi abitanti, abbandonati a una profonda rassegnazione che si manifesta tanto in comportamenti autodistruttivi (fumo, alcol, gioco d’azzardo, poca attenzione alle norme igieniche) quanto in un generale disinteresse per la politica o in nostalgie monarchiche.

Non stupisce quindi che, pur se il documentario non fu mai trasmesso né in America né in Italia (dove il pubblico poté però vedere un breve rimontaggio di alcune immagini del film operato da Daniele Ciprì e Franco Maresco per il loro spettacolo teatrale del 2005 Viva Palermo e Santa Rosalia), il solo essere raccontato e commentato dai giornali portò la mafia a decretare la distruzione del quartiere.

Lo sgombero venne attuato dalle forze dell’ordine, che trasferirono la riluttante popolazione altrove, previa assegnazione di case popolari.