Come a volte succede, la storia della realizzazione di Crime and Punishment (1935) è più interessante del film in sé. Si tratta di una piccola versione hollywoodiana di Delitto e castigo, tipica di un periodo in cui gli studios tentavano di conferirsi prestigio culturale mettendo in produzione adattamenti di classici del romanzo europeo. Siamo però lontani anni luce, ad esempio, dal lussuoso trattamento dedicato da David O. Selznick all’opera di Charles Dickens con film come David Copperfield o A Tale of Two Cities (anch’essi del 1935). Approfittando del fatto che il capolavoro di Dostoevskij fosse entato in pubblico dominio, Harry Cohn della “mini-major” Columbia Pictures mise insieme una produzione dal budget irrisorio, evidente nel ricorso a pochi interni spogli e a un cast privo di nomi di punta.

Oggi il film incuriosisce soprattutto per aver segnato l’incontro (e un importante punto di passaggio) nelle carriere di Josef von Sternberg e Peter Lorre. In questo risiedono insieme il suo maggior interesse e un certo motivo di delusione, perché da due personalità simili non esce più che un solido melodramma a tinte non abbastanza fosche, che non prova neanche a lambire l’introspezione dostoevskiana, ma si accontenta di anestetizzarne gli aspetti più estremi per cautela nei confronti della censura.

Sternberg in particolare, assoldato da Columbia alla scadenza del suo contratto con la Paramount, risulta tristemente irriconoscibile dopo le fiammate visionarie di Marocco (1930), Shanghai Express (1932) o L’imperatrice Caterina (1934), tutti in collaborazione con Marlene Dietrich. Il barocchismo del grande esteta non increspa mai la superficie di una messa in scena tanto corretta quanto tradizionale, molto distante dal suo gusto per l’eccesso, meritando al film la fama di lavoro interlocutorio e contrattuale.

Fortunatamente non si può dire lo stesso dell’interpretazione di Lorre, anche lui a un bivio nella sua carriera: Crime and Punishment rappresenta il primo frutto del contratto firmato con Columbia al suo arrivo a Hollywood, nonché il suo secondo film americano in assoluto dopo essere stato prestato alla MGM per il meraviglioso Amore folle (1935) di Karl Freund. In un inglese ancora incerto (ma molto migliorato rispetto a L’uomo che sapeva troppo, quando aveva imparato le sue battute foneticamente) Lorre si esalta al centro di un film dall’impianto marcatamente teatrale e dialogico, restituendo sfumature emotive a questo timido “riassunto” del Raskòl’nikov letterario.

Regia e scenografia disadorne lasciano campo libero all’insuperato talento del protagonista di M nel ritrarre la zona grigia morale fra le pulsioni violente dell’individuo e le convenzioni altrettanto violente della società. I meriti del film iniziano e finiscono con la sua prova, memorabile nonostante tutto e quindi meritevole di figurare in un percorso retrospettivo che vanta titoli di ben altro calibro.