L’eroe spietato ha ceduto il passo a un anziano dallo sguardo dolce, la cui capacità di conquistare con gli occhi è rimasta intatta. Clint Eastwood continua a conquistare con la sua presenza scenica invidiabile, che non sembra essere consumata dalle decine di ruoli differenti che ha interpretato. Eppure, Cry Macho è un film che esplicitamente tematizza questo cambiamento, il passaggio dal vigore della gioventù alla riflessività della vecchiaia, lesinando sulle scene di azione e sulla consequenzialità della storia per lasciare spazio alla bellezza dei momenti di riposo, di calma, di condivisione della gioia con le altre persone.

Senza dubbio ci troviamo di fronte a un lavoro che gioca sul passato del protagonista Mike confondendolo continuamente con il passato dell’attore e regista Clint, che presta la sua immagine di giovane cowboy nelle foto che vediamo appese in casa sua e in alcune suggestive osservazioni sul fatto che “non sono più quello che ero”. Eastwood cede la sua storia professionale a sostegno del suo personaggio finzionale, che altrimenti reggerebbe davvero poco. D’altra parte, come può un cowboy novantenne, sopravvissuto a una rovinosa caduta da cavallo che gli ha compromesso la schiena, viaggiare per giorni attraverso il Messico, dormire per terra o su dure panche di legno e persino mollare qualche pugno? Tutto ciò è credibile solo se siamo consapevoli che dietro a Mike c’è Clint: è l’aura mitica di questo grande cineasta a convincerci.

Sinteticamente Cry Macho parla di un uomo anziano spedito da un suo ex collega (che abbiamo visto nella prima scena licenziare il protagonista) a recuperare il figlio avuto e poi dimenticato in Messico. Le motivazioni che spingono Mike a intraprendere questa avventura sono labili e per lo più lasciate all’immaginazione dello spettatore: è debitore verso il suo mandante, ma forse cerca anche di compensare la perdita della propria famiglia. Il film si sviluppa come un road movie dal ritmo piuttosto stanco, in cui le stazioni di sosta sono insignificanti, raggiunte con agio e con poca tensione.

Quando l’inquietudine dovrebbe salire, il fatto che Eastwood sia una corpo così fragile le attenua di livello, mentre rende bene la sua dolcezza, sensibilità e umorismo quando è a contatto con gli altri personaggi, a cominciare dal ragazzo oggetto della conquista, Rafael, passando dalla locandiera Marta con cui condivide un passato doloroso, e allargandosi a tutto il paesaggio dei personaggi minori, tutti tratteggiati con puntualità ed empatia, che colorano la scena e rendono piacevole la nostra permanenza nel caldo panorama messicano. I conflitti sono in secondo piano.

Questo ci fa pensare a una sceneggiatura debole, che non calibra adeguatamente i suoi contrasti e di conseguenza neanche le tensioni tra i personaggi, che emergono a spizzichi e bocconi e non sono in grado di spezzare l’armonia che ci viene invece data dalle immagini. Rispetto al tono combattivo e teso di alcuni ultimi lavori - a partire da Gran Torino (2008), ma anche American Sniper (2014), Sully (2016), Richard Jewell (2019) - il tono qui è più pacato, anche nel linguaggio cinematografico.

Tante suggestioni relative a questo film emergono anche dalla visione combinata con il documentario Clint Eastwood- A Cinematic Legacy, presentato al Torino Film Festival. Si tratta di una serie prodotta da Warner Bros. composta da nove episodi da 20 minuti l’uno, un formato molto adatto alle piattaforme più che al passaggio televisivo, e sicuramente non valorizzato nella proiezione in sala, dove il ripetersi della sigla introduttiva ha reso la visione più faticosa del dovuto. Una visione che però si è rivelata interessante, una lezione di cinema che ricostruisce diversi aspetti della vita da attore, regista e produttore di Clint Eastwood, approfondendo il suo metodo nella valutazione della sceneggiatura, nella scelta degli attori, nel rapporto coi generi, con i film del passato, con la sua figura divistica e con altri professionisti. Dal punto di vista tecnico non siamo di fronte a un prodotto innovativo, però rimane un importante documento per studiare e ricordare la variegata carriera di questo cineasta.

Dopo questa full immersion nella storia di Eastwood, è ovviamente strano rivederlo zoppicante, ma sorridente, alle prese con una avventura strampalata dove ciò che resta di più è proprio lo strizzare d’occhio continuo a una storia lunga e importante. Infine, credo non ci si trovi di fronte a un film testamentario, anzi: se non si può premiarlo per coerenza e compattezza, resta un lavoro che mostra un autore sempre alla ricerca di qualcosa e mai seduto sulle proprio convinzioni.