Uscito nel 1951, Cry, the Beloved Country rappresenta al contempo un prototipo e un’anomalia rispetto al cinema del suo tempo. La sua storia realizzativa apparentemente sbalestrata – un film inglese, di un regista ungherese, girato in Sudafrica, con cast in parte statunitense – è in realtà tipica dell’immediato dopoguerra, periodo segnato a più livelli da operazioni transnazionali e da una generale repentina globalizzazione del prodotto cinematografico.

Sono gli anni della Runaway Hollywood, ma anche quelli in cui i cineasti europei più avventurosi navigano a vista fra co-produzioni e nuove sinergie creative, che non di rado coinvolgono location e personale pescati ai quattro angoli del mondo. Di questo panorama globalizzato Zoltan Korda e suo fratello Alexander sono protagonisti eponimi: ungheresi di nascita, fondatori in Inghilterra di London Film Productions, transfughi in California a partire dalla post-produzione di Il ladro di Bagdad (1940).

Dove Cry, the Beloved Country si distacca invece nettamente dal cinema e dalla cultura contemporanei è nel contenuto ideologico, in particolare nella modernità e prescienza della sua critica al problema razziale sudafricano. Ma anche questo a ben vedere ha ragioni ben precise nel contesto storico di quel “cinema senza frontiere”. È ampiamente documentato infatti come, a seguito delle purghe maccartiste, molti degli artisti hollywoodiani politicamente più a sinistra (blacklisted o comunque variamente impossibilitati a lavorare nell’industria americana) diventino in quel periodo veri e propri professionisti internazionali, disposti a valicare l’Atlantico per prestare i propri servigi nel più accogliente panorama europeo.

In Cry ne troviamo ben due: il co-sceneggiatore John Howard Lawson e il protagonista Canada Lee (I prigionieri dell’oceano), qui alla sua ultima interpretazione, fra i primi memorabili volti afroamericani di una Hollywood ancora fermamente segregata. Aggiungiamo alla ricetta un giovanissimo e furente Sidney Poitier – tonaca da prete cattolico ma pizzetto da black muslim - e c’è indubbiamente il materiale per inscrivere il film di Korda in un’ideale storia della contestazione razziale condotta “dall’interno” dalla nascente coscienza nera del cinema americano.

Contestazione possibile solo nella bolla protettiva di una produzione così dislocata, non hollywoodiana, ma che si innesta come evidente sovra-tono all’interno del (già piuttosto radicale) grido di denuncia levato dal film contro l’apartheid sudafricana. I desolanti aneddoti sulla lavorazione, con Lee e Poitier costretti a dichiararsi domestici di Korda per poter lavorare indisturbati in Sudafrica, non fanno che sottolineare con dolorosa ironia la tempestività di quel messaggio.

Posto dunque che Cry rappresenta una pagina originale e affascinante di coscienza civile su grande schermo, più difficile è rispondere alla domanda se sia o meno anche buon cinema civile. È una domanda interessante, che dà luogo a possibili argomenti in entrambi i sensi. Da un lato non si può non ammirarlo per l’asciuttezza del linguaggio, la forza di tutte le interpretazioni, nonché per lampi di lirismo modernista come quello in cui il protagonista (versione sudafricana di un “curato di campagna”) si trova per la prima volta di fronte la civiltà industriale sotto forma del cemento e delle luci artificiali di Johannesburg; allo stesso modo, sul piano ideologico, colpisce l’equanimità con cui un film “dell’Impero” tratta bianchi e neri, non cedendo alle trappole opposte di demonizzazioni e santificazioni.

Eppure c’è qualcosa di arido, forse un filo tautologico, nella sceneggiatura scritta a sei mani da Korda, Lawson e dall’autore del romanzo di partenza Alan Paton. La strategia retorica è limpida: attraverso gli occhi di un prete (Lee) che parte per la città in cerca di una sorella e di un figlio veniamo sensibilizzati al degrado e alla povertà in cui versa la popolazione nera di Johannesburg. Un giorno durante una rapina quel figlio uccide un uomo bianco, peraltro acceso sostenitore dell’uguaglianza razziale; la cosa potrebbe portare a disastrose ritorsioni, ma i genitori dell’ucciso, altrettanto illuminati, restano fedeli alla battaglia del figlio, capiscono che l’assassino è prodotto di un contesto socio-economico atroce, e molto cristianamente perdonano.

Per carità, tutto giusto. Ma somiglia un po’ troppo alla dimostrazione in vitro di una tesi liberal, senza contraddittori, senza nemici con le loro argomentazioni (per quanto deviate), con solo un interlocutore ideale che la pensa già come noi ed è quindi giocoforza molto diverso dalla realtà media del bianco sudafricano dell’epoca. È l’eterno problema di tanta propaganda di sinistra: si enuncia una tesi raccontando una storia faticosamente disegnata per dimostrarla. La coscienza è pulita, la pancia dello spettatore completamente bypassata.

Siamo proprio sicuri che sia più utile alla causa dello sporco sentimentalismo alla Il buio oltre la siepe?