La guerra in Ucraina è ufficialmente scoppiata il 24 febbraio 2022, e immediatamente si è percepito quanto questo evento sia radicale per chiunque viva in Europa. I profughi che emigrano dal paese sono rapidamente diventati più di un milione, il più grande esodo di massa dai tempi della seconda guerra mondiale, da un luogo che si trova ad appena un ora e mezza di aereo dall’Italia, e, complici le nuove tecnologie che ci permettono un’interconnessione minuto per minuto con gli eventi che si svolgono appena fuori dal nostro raggio visivo, è naturale che l’impatto di questo evento si stia facendo sempre più pesante. Questo anche perché permane un senso di disorientamento dovuto allo sorpresa, al fatto che i più non si aspettavano di veder scoppiare un conflitto di queste dimensioni alle porte dell’Europa. 

In realtà sappiamo che il conflitto interno in Ucraina con gruppi di soldati russi e filorussi dura da anni, ed è figlio della difficile relazione tra la Russia e le ex repubbliche sovietiche. Questo conflitto non è sorto dalla sera alla mattina, e questa guerra a bassa intensità è stata già vissuta e osservata da tantissime persone nel mondo, tra cui anche una schiera di cineasti che hanno deciso di raccontarne le sfumature e gli effetti.

In Italia i cinefili e gli studiosi, e in particolare chi ha interesse per il cinema dell’Est Europa, hanno trovato un luogo di elezione dove poter vedere molti di questi film grazie alla Mostra del Cinema di Venezia, che ha dimostrato grande sensibilità verso questi temi e soprattutto la capacità di riconoscere le abilità dei registi che ne hanno parlato attraverso le proprie opere. Riflettendo in questi giorni sulle mie personali conoscenze sulla situazione in Ucraina, le immagini che mi sono tornate alla mente appartengono a questi film.

Il primo tra tutti è il documentario Winter on Fire di Evgeny Afineevsky, uno dei primi film prodotti da Netflix ad essere presentato alla Mostra nel 2015. Il film è stato realizzato grazie a tantissimi video inviati dai manifestanti ucraini durante le proteste avvenute nel febbraio 2014 in piazza Maidan, in cui tantissimi cittadini ucraini protestarono contro il governo filorusso del presidente Viktor Janukovyč, portandolo alle dimissioni e infine a lasciare il paese. Il documentario di Afineevsky è in parte molto freddo e descrittivo, disegnando graficamente il passaggio delle folle e dei mezzi pesanti e marcando date ed eventi a schermo in stile televisivo, ma acquista corpo giustapponendo questi numerosi filmati fatti con telefonini e fotocamere, che ci permettono di percepire l’esperienza di essere in quella piazza, con la neve, il buio, il timore di cosa sarebbe potuto accadere.

Pochi anni dopo, nel 2019, vince il premio come Miglior Film nella sezione Orizzonti Atlantis di Valentyn Vasyanovych, che immagina l’Ucraina nel 2025 completamente devastata dai conflitti, arsa dalle bombe e resa sterile da una qualche contaminazione (c’è da rabbrividire che proprio il 4 marzo 2022 il presidente russo Putin ha bombardato la centrale nucleare di Zaporizhzhia, una delle più grandi in Europa, fortunatamente senza intaccare i reattori). Vasyanovych dipinge un futuro grigio e freddo, in cui poche figure laconiche si muovo in uno spazio desolato alla ricerca di un minimo di conforto, attraversando edifici distrutti, bunker e campagne desolate, resi ancora più opprimenti grazie al formato 2.35:1. Il ritmo lento del film ci permette di sostare con le singole storie, di soffermarci a sentire il freddo ma anche godere della bellezza di certe intuizioni, come mostrare una coppia abbracciata all’interno di un furgone spiata con una telecamera termica, che improvvisamente riaccende i colori sullo schermo.

L’anno successivo a Venezia viene presentato Bad Roads di Natalya Vorozhbit all’interno della Settimana Internazionale della Critica. Dopo un documentario sul passato e un film proiettato al futuro, questo è un film che rappresenta il presente, un racconto a episodi che ritrae diversi personaggi coinvolti a vario titolo nel conflitto del Donbass. Si passa dai militari russi in un posto di blocco a una giovane che attende il rientro a sera del soldato russo con cui si sta frequentando all’episodio di una automobilista in panne che non riesce a farsi aiutare dai contadini di una zona rurale. Il film è sorretto da una solida costruzione della tensione nei diversi episodi ed è intimamente violento, a tratti quasi insopportabile. Sul momento ricordo che questa sensazione quasi mi infastidì, ma a ripensarci oggi vedo una lucidità incredibile nella messa in scena di queste relazioni.

Nel 2021 il successivo film di Vasyanovych Reflection viene presentato nella competizione ufficiale, segnando un rinnovato interesse della mostra per il lavoro di questo autore. Il film è molto diverso da Atlantis, perché in questo caso il protagonista è uno soltanto e viene seguito in maniera quasi didascalica nel suo percorso silenzioso. Serhiy è un chirurgo ucraino che parte per una missione in Donbass, nel 2014. Viene catturato e sopravvive solo perché è un medico e viene assegnato alla cura dei prigionieri suoi connazionali. La violenza a cui assiste e di cui è parte durante la sua segregazione resta con lui anche al suo rientro in città, nella vita civile di ogni giorno in cui però è difficile tornare a operare. Serhiy cerca di superare il trauma riavvicinandosi alla ex moglie e alla figlia adolescente, che già mostra anch’essa i segni del conflitto che il paese sta vivendo. Sebbene la storia sia forte e raccontata con la grazia di cui era già espressione Atlantis, questo film risulta più semplice, meno ardito nelle sue scelte e in definitiva meno convincente.

Nello stesso anno a Venezia è possibile vedere anche il documentario Tranchées di Loup Bureau, il cui titolo stesso è indicativo (=trincee). Il regista segue i percorsi dei soldati ucraini in un contesto di guerra aperta che poteva apparire inimmaginabile, attraverso trincee e bunker, ascoltando le storie di questi soldati per cui la guerra è qualcosa di normale, un posto da cui andare e venire, uno stato d’animo quasi.

Ricordiamo questi titoli come film che aiutano a comprendere la situazione attuale, ma al tempo stesso ci rendono consapevoli di quanto queste vicende fossero lontane dalla vita degli altri abitanti dell’Europa, episodi che potevamo ritenere conclusi una volta usciti dalla sala. E quante volte avremo pensato la stessa cosa uscendo dalla proiezione dell’ultimo documentario sulla Siria o sulla Palestina. Tutti conflitti in corso, eventi di cui potremmo conoscere tutto grazie a un semplice clic, ma che teniamo a debita distanza nelle esperienze di visione a cui possiamo accedere da spettatori privilegiati. Questo è stato il nostro ruolo in questi e molti altri conflitti, e come questo cambierà con la guerra in corso ancora non lo sappiamo. L’unica cosa certa è che il cinema fa il suo dovere, diventando strumento di espressione per chi queste storie le vive sulla propria pelle, e il minimo che possiamo fare è non sottrarci alla consapevolezza che queste opere ci portano.