Le intenzioni sono chiare fin dal titolo: Dafne di Federico Bondi è la storia di una donna inscalfibile, con un tetto ma senza legge e deflagrante in ogni momento, preminente davanti alla macchina da presa e alla vita. A interpretarla è Carolina Raspanti; non ha letto il copione perché voleva essere libera, stando a ciò che ha più volte detto l’attrice e in effetti la finzione sembra essersi totalmente adattata, plasmata sul suo vissuto personale: lavora in un supermercato sia nel film che nella vita, dice di amare il suo lavoro, di considerarlo parte costitutiva della sua identità, di sentirsi realizzata creando dal nulla la più piccola parte del prodotto che dovrà vendere cioè le etichette, come asserisce fiera a una sua collega. Davanti alla morte ci si chiede come poter trovare la forza per resistere, per le mille iniziative e gli altrettanti progetti che potrebbero non arrivare a nulla, quei tentativi per uscire dalla soggezione del mondo che quasi sempre abortiscono, ma nel vincere la mancanza della madre Dafne è insormontabile, riuscendo a non soccombere come invece sarebbe capitato al padre senza l’aiuto della figlia: l’attrice e il personaggio sono così di una dirompenza che lascia spiazzati, commossi.

A oltre dieci anni di distanza da Mar Nero, di nuovo un personaggio femminile che deve cominciare daccapo dopo un lutto attraverso le proprie forze, indipendente e autodeterminata: un’altra storia resistente che non cede ai semplici patetismi, nemmeno quando le circostanze sarebbero state tali da lasciarsi trascinare verso coinvolgimenti emotivi fulminei, monocordi perché spesso ci si confonde tra pietismo ed empatia, vuota commiserazione e connivenza di sensi e vissuti. Non ci sono ansia né trepidazione di arrivare dritti al cuore dello spettatore e Bondi predilige piuttosto le vie impervie di una narrazione che si prende i suoi tempi, incedendo placida e senza affanni, con una consapevole presenza di momenti di distensione e attesa: si pensi alle conversazioni con il padre (al dramma stemperato e sottile del campo-controcampo finale) o all’indugiare fermo sulle abitudini della donna tanto che le immagini paiono scorrere senza l’ausilio di uno “sguardo-regista”.

Un mettersi da parte che non vuol dire annullarsi, spersonalizzarsi rispetto a una vicenda, bensì osservarla da lontano, attraverso un punto di vista esterno e per questo privilegiato, che consente di comprendere – dal latino “cum-prehendere” un contenere che è quindi un includere e abbracciare (Dafne abbraccia sempre tutti) - tutto l’esistente e farne intimo patrimonio emotivo, piuttosto che capirlo o semplicemente coglierlo. E sorprende, Dafne, per la sua estraneità, il suo essere del tutto fuori dalle coordinate e dagli aspetti di certe visioni italiane coeve sfiorando per contrappunto il senso del cinema indipendente: la naturalezza e la trasparenza di sguardo di Bondi riportano anche a Baumbach o ad Alexander Payne, per quell’idea di cinema che fa del naturale esistere e muoversi del reale interiore ed esteriore condizione e cifra di stile: quell’esporre qualcosa dell’altro – il personaggio - che in realtà è qualcosa anche di sé, di un’interiorità che acquisisce concretezza e vita attraverso un rapporto di reciproca interazione e mutua rivendicazione della propria appartenenza al mondo e al tempo, così come fa Dafne, fin dall’inizio: «Non c’è mai tempo!» dice alla madre, da subito impaziente e tumultuosa.