"Istinto della vita e orrore della morte

c’era una volta, a quei tempi, ai nostri tempi, è una fiaba, non è mai successo, è una storia vera".

Un motoscafo ovattato rimbalza sul Mediterraneo, poi: diapositive di binari, grigiore di ferrovie e scogliere aspre, di confine. Stazione di Ventimiglia. L’ultima in Italia prima della frontiera. Soli, a piccoli gruppi, dei migranti studiano i pannelli degli orari, in silenzio. La storia inizia da loro, che una volta in Francia, alla stazione di Mentone, sono respinti dalla polizia di frontiera di nuovo in Italia. L’alternativa è il sentiero della morte, il cammino che aggira i controlli passando per la montagna, nell’ignoto che presuppone oblio, sparizione, abbandono.

Tra gallerie autostradali e dirupi, i passi sul sentiero della morte sono misurati come la voce cadenzata che racconta questa storia. Una voce meditativa che alla realtà innesta subito la microstoria e il fiabesco, allucinando le sue premesse tra urla di scimmie che scappano e rane sottotitolate che gracidano, in un racconto in cui lo stato liminale della frontiera diventa il centro di tutto. Non sono le persone a parlare, ma è Cioni-rapsodo che dà voce al luogo.

La riviera, il confine: la concretezza della storia prende la forma di vestiti abbandonati dai migranti lungo la montagna ma anche, e soprattutto, di castelli tropicali a picco sul mare. Il castello Voronoff, sulla scogliera, è a cavallo della frontiera. Lì, nei ruggenti anni Venti, il chirurgo russo che dà il suo nome alla villa promuoveva le sue terapie di ringiovanimento tramite il trapianto di testicoli di scimmia. Quale luogo migliore di una riviera mediterranea per ambientare la lotta contro l’affaticamento del tempo, l’opposizione all’invecchiamento. Ironico come il demoniaco o salvifico Voronoff, che si oppone allo scorrere del tempo, sia poi stato destinato all’oblio.

In un montaggio d’impulso, associativo, la storia procede via via in una stratificazione temporale e materica: dai filmati d’archivio allo sci-fi degli anni ’40, dai filmini domestici e rivieraschi agli occhioni lucidi di anfibi notturni: il cinema di Giovanni Cioni non è tanto di parola quanto di pensiero, un discorso che si muove libero tra le diapositive e le voci narranti — che sfiorano i saggi di Chris Marker — e il ragionamento individuale mosso secondo la logica chiusa e inoppugnabile della riflessione privata, dell’investigazione personale condivisa in fieri.

Il contesto rivierasco si presta: dalle "delizie coloniali, testicoli di scimmia per uomini ricchi e rispettabili" al Festival della canzone italiana (che pure fa un breve cameo forse per suggerire che "l’Italia è un paese di musichette mentre fuori c’è la morte"?), in una sovrapposizione tra i vecchi turisti e i nuovi, Cioni parla di un luogo incagliato in un tempo di benessere, una riviera decrepita che però non invecchia mai e che, soprattutto, guarda altrove.

C’era una volta una realtà crudele sotto il luccichio di una fiaba putrefatta. Cioni a modo suo si oppone all’oblio. C’era una volta la vita che deve affrontare la morte per essere vita, dove fuggire è una questione di morte e di vita, dove bisogna passare i tunnel fognari di notte. Essere sfiorati dalla morte è una questione di vita o di morte. C’era una volta, dove? Qui. È qui che succede.