In poco meno di vent’anni David Herbert Lawrence è stato un critico, drammaturgo, pittore, poeta, romanziere, saggista e traduttore, lasciandoci un corpus di immensa vastità e valore. Tanto le opere letterarie quanto la breve vita dell’autore inglese sono segnate da un’inquieta iperattività, talvolta da dilettantismo, in una costante ridefinizione della propria visione del mondo. La prosa di Lawrence è confusa, perfino ripetitiva e sconclusionata, forse almeno in parte perché spesso ispirata alla sua stessa vita. Tra i suoi detrattori vale la pena ricordare almeno due altri esponenti di punta del modernismo inglese: James Joyce, con cui non è mai intercorso buon sangue, e Virginia Woolf, che considerava entrambi sopravvalutati.

Al di là dell’opinabile giudizio estetico, l’innegabile grandezza di Lawrence risiedeva nel suo essere sapientemente provocatorio, aveva capito il contesto che lo circondava e punzecchiava dove sapeva dolere di più. Il suo bersaglio prediletto è la puritana morale vittoriana, di cui il Regno Unito del primo dopoguerra era ancora intriso, e i cui stringenti dogmi sociali si contrappongono alla sua visione – invero naïf – di un ritorno a un tempo mitico, segnato dall’armonia fra essere umano e natura, e dall’intesa spirituale fra i sessi. Per lui l’atto sessuale è la via per una conoscenza estatica del mondo naturale in quanto tale, minata dall’etica utilitaristica e tecnofila del suo tempo.

La macrotematica dei suoi scritti è quindi piuttosto generica, il che la rende materia estremamente duttile per adattamenti audiovisivi anche all’infuori dei confini occidentali (esistono ad esempio versioni egiziane e filippine di L’amante di Lady Chatterley). Non è l’entusiasta passatismo di Lawrence a farne la grandezza – al contrario, leggendo ad esempio La corona se ne ricava l’immagine di un autore infantile – ma l’amorale lucidità dei suoi personaggi. Attorno a ogni piccolo gesto, l’autore inglese costruisce intricati attriti interni fra logiche sociali e desideri individuali, personalità troppo spigolose e sincere per risultare positive, egoistici giochi di potere fra i sessi. Spesso incastrati in dinamiche sociali di cui riconoscono l’artificiosità, i personaggi di Lawrence si muovono seguendo un itinerario scientemente autodistruttivo pur di non scendere a compromessi, anche quando sanno di essere in errore. È questo elemento, il prevalere dell’autodeterminazione a discapito dell’autoconservazione, a mancare purtroppo in gran parte degli adattamenti cinematografici delle sue opere.

Prendendo ad esempio il suo romanzo più noto, L’amante di Lady Chatterley, peraltro recentissimamente riadattato per Netflix, è difficile non ritrovare la solita piatta riproposizione della nobildonna annoiata che riscopre il piacere della vita grazie a una focosa relazione extraconiugale. Una delle versioni più note è infatti quella omonima di Just Jaeckin (1981), niente più che un softcore patinato figlio del successo della saga di Emmanuelle. Tralasciando picchi di demerito di film come Lady Chatterley Junior e assimili anche nostrani – che peraltro, stando a quanto scrive nel breve saggio Oscenità e pornografia, Lawrence stesso avrebbe detestato - le versioni più convincenti rimangono il Lady Chatterley del 1993 e l’omonimo del 2006. Il primo è una miniserie BBC in quattro episodi, ridotto anche a film e diretto da Ken Russell. Più che negli altri film e serie realizzati dalla televisione inglese a partire dalle opere di Lawrence, il personaggio del guardacaccia interpretato da Sean Bean ritrova quella connotazione schietta e proletaria fedele alla prima versione del romanzo, e pure la descrizione del mondo dei minatori viene abbastanza valorizzata, benché non si tratti del lavoro più esaltante di Russell su Lawrence.

Il Lady Chatterley francese del 2006, premio César di Pascale Ferran, è invece l’unico tratto dalla seconda versione del romanzo, la più ambigua e per alcuni aspetti più riuscita. Ci sono poi film che soffrono lo stesso problema: fedeltà all’intreccio dell’opera originale ma senza l’approfondimento psicologico che le ha rese grandi. È il caso di Kangaroo (1987) o La volpe (1967) entrambi presi da racconti poco sfruttati ma dall’enorme potenziale, specie il secondo, intriso di una morbosa tensione omosessuale. Figli e amanti (1960) aveva l’opportunità di sfruttare l’immagine per potenziare l’impatto del già perturbante capolavoro letterario, pesantemente incentrato sul complesso di Edipo - come farà poi Louis Malle con Soffio al cuore - ma i tempi non erano maturi per rappresentare appieno certe dinamiche al cinema.

Le migliori opere tratte da Lawrence rimangono La vita è un arcobaleno e Donne in amore, entrambe dirette da Ken Russell. La vita è un arcobaleno racconta del viaggio di scoperta e autodeterminazione di Ursula, una giovane in lotta con le limitazioni imposte alle donne sul finire dell’epoca vittoriana. Il regista è abile nel rappresentare l’ideale sensuale di Ursula più ancora che la sensualità visivamente esibita, e allo stesso modo trasmette efficacemente l’oppressione intrinsecamente maschile delle istituzioni: lo sfruttamento dei lavoratori ad opera dello zio della protagonista e soprattutto lo spietato sistema scolastico. Donne in amore è invece più sofisticato, incentrato più su sfumature sul medesimo tema che su contrasti fra interessi incompatibili. Le due relazioni sentimentali che compongono il film danno modo a Russell di indagare il tema dell’amore e le disfunzionalità nel rapporto fra i sessi. Si respira la cruda lucidità di Lawrence quando una delle protagoniste umilia il compagno a tal punto da indurlo al suicidio, come pure nella scena di wrestling fra i due amici nudi – la più incisiva del film, aggiunta da Russell alla sceneggiatura – in cui l’omosocialità tende vertiginosamente all’omoerotismo.

Che cosa manca, in definitiva, alla stragrande maggioranza adattamenti di Lawrence? Lo scandalo! Lawrence era un uomo del suo tempo, ricettivo e acuto, era perfettamente conscio dell’impatto che certe sue idee avrebbero suscitato. Perfino L’arcobaleno, tutto sommato uno dei suoi lavori più innocui, subisce un processo per oscenità a seguito del quale le copie in circolazione vengono sequestrate e distrutte. In quel romanzo, lo scrittore inglese insiste sulla legittimità del piacere sessuale femminile e sul diritto all’autodeterminazione delle donne in un periodo in cui queste non potevano neppure votare, per non parlare della repressione sessuale vigente. Tutto materiale che da almeno mezzo secolo non scandalizza nessuno. Una volta i suoi lavori erano troppo audaci per essere riscoperti, ora sono troppo audaci per non essere riscoperti, a maggior ragione in un periodo in cui la cinematografia sembra aver ritrovato interesse nelle questioni di genere.

La tensione sessuale che permea Figli e amanti non può riflettere l’attaccamento morboso verso i bambini che contraddistingue la contemporaneità? Non si può riprendere l’esaltazione della religiosità pagana de Il serpente piumato per relativizzare la cultura dominante in un’ottica post-colonialista? Non si può recuperare l’egoismo classista della prima Lady Chatterley e restituirle il suo fascino cinico e altezzoso, seguire la malignità dietro al suo percorso di emancipazione? Se si vuole restituire l’effetto urticante che suscitò Lawrence ai suoi tempi, non basta più ragionare sulle trame, non siamo più nell’epoca vittoriana, il tempo non si adatta, si adatta al tempo.