Presentato in concorso durante la Berlinale 2020, quindi a sette anni di distanza dal precedente lungometraggio, Stray Dogs (2013), Days è la dimostrazione che il cinema di Tsai Ming-linag sia qualcosa di costantemente anacronistico e, proprio per questo, un oggetto inamovibile, marmoreo, un punto cardine affidabile e certo, garante di una visione contemplativa sempre più rarefatta e minimalista da risultare scomoda tanto negli anni Novanta quanto oggi.
Se trent’anni fa i primi lavori del cineasta malese sfidavano lo sguardo del pubblico esigendo una nuova forma di fruizione cinematografica che di lì a poco sarebbe poi esplosa in diverse aree geografiche, oggi Tsai Ming-liang sembra voler continuare questo esercizio di ricerca su due canali differenti. Si ritrova infatti spesso a sperimentare forme e linguaggi nuovi (come il VR ad esempio) nelle produzioni di cortometraggi o installazione extra cinematografiche, mentre per quel che riguarda il grande schermo continua inesorabilmente a lavorare in sottrazione mantenendo però solida la sua fede e la sua fiducia nella rappresentazione di una realtà materica, concreta, in cui vige un rapporto in scala 1:1 tra significato e significante.
Così, Days è una successione di giorni (va da sé) dove le solitudini dei due protagonisti, unitamente al loro inevitabile incontro, sono accompagnate da una catena di azioni reiterate che non hanno scopo alcuno se non quello di certificare la loro stessa esistenza. Fornelli, acqua, verdure, coltelli, letti, motociclette, stanze di albergo, cure mediche. L’universo cinematografico di Tsai non è altro che la realtà come la conosciamo. Sembra quasi che le immagini di Days stiano combattendo una battaglia per imporsi in quanto tali, senza fronzoli. In anni in cui il confine tra essenza e apparenza si è sempre reso più labile e in cui il cinema ha portato in scena questo dilemma perdendo fiducia nella sua stessa rappresentazione, Tsai Ming-liang costruisce una cattedrale di emozioni ricordandoci e ricordandosi di non guardare ai suoi lavori in quanto metafore di vita, ma in quanto vita a sé stante.
Durante la proiezione berlinese, il lungometraggio venne introdotto da una didascalia in cui si annunciava volutamente l’assenza dei sottotitoli. Nell’edizione italiana questo fatto si è perso e i brevissimi dialoghi sono stati tradotti e messi a disposizione del pubblico. Tuttavia, la lingua non è assolutamente un problema da considerare laddove sono le immagini a parlare chiaro. Tsai contempla ogni singolo istante della vita dei suoi personaggi, da un respiro affannoso sino alla tensione erotica di un rapporto sessuale, passando per la fame della povertà e la noia agiata della borghesia.
Tutto scorre in una dolce sinfonia perfettamente orchestrata da un regista ormai non più giovanissimo che si trova, ancora una volta, a fare i conti con un cinema anacronistico, fuori tempo massimo. Un regista al quale però è sufficiente inquadrare un ragazzo che lascia risuonare un carillon nel cuore di una città per esprimere una potenza cinematografica che, ancora oggi, sembra avere ben pochi rivali. E se poi il brano musicale non è altri che il tema principale Luci della ribalta (1952), allora sembra davvero di assistere alla Storia (del cinema) specchiarsi in se stessa.